C'è una strada capace di spingere la guerra dell'Ucraina fino ai Balcani, trasformarla in conflitto mondiale e coinvolgere, nostro malgrado, gli oltre seicento militari italiani schierati in Kosovo sotto le insegne della Nato. Quella strada passa a poco più di 600 km dai nostri confini orientali e si snoda tra Belgrado e Pristina. Da circa 24 ore le sue insidie sono sotto gli occhi di tutti. Domenica notte la contesa sulle targhe automobilistiche del Kosovo - che le autorità di Pristina pretendono di uniformare piegando una minoranza serba decisa a mantenere le immatricolazioni effettuate a Belgrado - è arrivata a un passo dallo scontro armato. E nei territori settentrionali, feudo della minoranza serba, sono volati i primi colpi di kalashnikov. Il tutto mentre il premier kosovaro Albin Kurti prevede settimane «molto problematiche» e il presidente serbo Aleksander Vucic intima a Pristina un drastico altolà. «Se maltratteranno e uccideranno i nostri fratelli - ammonisce Vucic - la Serbia vincerà». Le ragioni del contendere vanno ovviamente ben oltre lo scontro sulle targhe e affondano le radici nella guerra che 23 anni fa spinse la Nato a bombardare la Serbia e ad appoggiare i ribelli albanesi dell'Uck in lotta per l'indipendenza. Quell'intervento, voluto per l'Italia dal governo di Massimo D'Alema, portò già allora Russia e Nato a un passo dalla guerra. L'11 giugno 1999, mentre una colonna russa avanzava versò l'aeroporto di Pristina, il generale Wesley Clark, comandante delle truppe Nato, ordinò l'intervento di un gruppo elitrasportato franco-britannico agli ordini del generale inglese Mike Jakson. L'intervento armato preteso dal comando americano venne evitato soltanto dal deciso «no» di un Jakson più propenso a risolvere la questione dividendo una bottiglia di whisky con il generale russo Viktor Zavarzin. A 23 anni di distanza la situazione è ancor più irta d'incognite. E l'intervento di Washington che la scorsa notte ha convinto Pristina a prorogare di un mese l'ultimatum sulle targhe non basterà di certo ad acquietare gli animi. Non certo quelli di una Serbia che vede nel Kosovo la culla della propria storia nazionale e religiosa e in Mosca la «grande madre» del mondo slavo-ortodosso. Il governo del presidente Aleksander Vucic è stato, non a caso, l'unico in Europa a rifiutare le sanzioni anti-russe, a mantenere aperti i voli su Mosca e a rinnovare gli accordi sul gas garantendosi contratti a prezzi di favore. Tre iniziative perfettamente in linea, secondo un recente sondaggio, con un'opinione pubblica serba che vede come il fumo negli occhi sia le sanzioni (84%), sia l'adesione alla Nato (88,1%), sia un'entrata nella Ue condizionata al riconoscimento del Kosovo (82,2%). Ma proprio il riconoscimento del Kosovo che nel 2008 dichiarò unilateralmente la propria indipendenza rischia di trascinare i Balcani nel gorgo del conflitto ucraino. Proprio ieri la portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova ha accusato Pristina di «volere l'espulsione dei serbi dal Kosovo». Un intervento di Belgrado in difesa delle minoranze serbe e ortodosse, pronte a tutto pur di evitare l'assimilazione forzata, rischia, dunque, di far precipitare la situazione spingendo Mosca a prendere le parti di Belgrado e la Nato quelle di Pristina. Un salto nel buio capace di aprire le porte a un conflitto ancor più esteso di quello combattuto in Ucraina. Un conflitto in cui il nostro paese si ritroverebbe inevitabilmente coinvolto.
Gli oltre 600 militari italiani dispiegati in Kosovo rappresentano infatti il contingente più rilevante nell'ambito d'una missione Nato-Kfor destinata a tornare entro qualche settimana sotto il comando di un generale italiano. Ma proprio questo cruciale duplice ruolo rischia di mettere l'Italia al centro di una guerra capace di allargarsi ben oltre i Balcani.
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