Tre mesi fa, commentando i risultati delle elezioni in Austria, avevamo concesso un credito eccessivo ai politici europeisti di quel Paese. Attribuendo loro serietà e concretezza, ci eravamo detti certi che la strombazzata «storica vittoria» della destra nazionalista (di fatto una semplice maggioranza relativa, conseguita con meno del 30% dei suffragi) si sarebbe risolta in una vittoria di Pirro. E questo perché, siccome il 70% degli elettori austriaci si era ben guardato dal votare per la Fpoe di Herbert Kickl isolata all'estrema destra, gli altri partiti avrebbero considerato una priorità unirsi in coalizione per salvaguardare i valori europei.
Cento giorni dopo, siamo stati smentiti. Cento giorni in cui il cancelliere uscente democristiano Karl Nehammer non è riuscito a convincere i socialisti e i neoliberali a formare insieme un governo tripartito, che avrebbe avuto una comoda maggioranza in Parlamento a Vienna. Nehammer alla fine si è arreso e ha restituito l'incarico al presidente della Repubblica Alexander Van der Bellen, un ecologista, il quale non ha avuto altra scelta che affidarlo al politico del suo Paese che detesta di più: Herbert Kickl. Il quale sembra avere chance concrete di formare una maggioranza di destra-centro con i democristiani (che nel frattempo hanno cambiato leader) «nell'interesse del Paese»: perché, appunto, tutto il mondo è paese, e queste furbe formulette non valgono solo in Italia.
Si vedrà presto se questa intesa diventerà realtà o se come forse Van der Bellen spera anche Kickl fallirà rispedendo gli austriaci alle urne. Nell'attesa, una morale si può già trarre: non sempre le grandi coalizioni per tener lontana dal potere la destra nazionalista (o populista, o filorussa, o tutte e tre le cose insieme, l'interpretazione è libera) funzionano. A Vienna non ha funzionato, e rimane da vedere se la «messa alla prova» dell'ultradestro di turno per addomesticarlo in una coalizione di governo con un partito europeista sarà stata una buona idea. Quello che intanto rimane, è la spiacevole impressione che la macchia nazionalista-populista-filorussa si vada allargando sulla mappa europea.
E questo non tanto (o non sempre) per una lucida convinzione degli elettori di preferire nazionalismo, populismo o strizzate d'occhio a Vladimir Putin alla linea europeista-atlantista di Bruxelles, ma soprattutto va pur detto per un crescente moto di ripulsa di tanti di loro verso la modestia dei politici che incarnano quella linea, non di rado percepita come astratta (quando va bene) o perfino nociva agli interessi o presunti tali della «gente comune»: viviamo un momento storico complesso, e la tentazione di affidarsi a chi offre risposte semplici è forte.
Ed ecco dunque il premier ungherese Viktor Orbán, abile danzatore di valzer tra Bruxelles e Mosca, ovviamente «nell'interesse del Paese» (il suo), che da anni cerca di prendere il più possibile dall'una e dell'altra fingendo di ignorare da che parte sta (o dovrebbe stare) l'Ungheria. Ecco Robert Fico, piccolo Orbán di Slovacchia.
Ecco in Olanda un relativamente addomesticato Geert Wilders già nella stanza dei bottoni, ecco in Francia una poco addomesticabile Marine Le Pen sempre più vicina a entrarci, ed ecco le fondate preoccupazioni per i numeri del (relativo?) successo elettorale che conseguiranno bruni (e rossobruni) in Germania il mese prossimo. Kickl, in fondo, è ormai solo un tassello di un puzzle che comincia a diventare inquietante.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.