La toppa peggio del buco. O quasi.
Dire che Giorgia Meloni non ha affatto gradito l'attacco del ministro dell'Interno francese Gérald Darmanin - che non solo ha puntato il dito sul governo italiano per come gestisce il dossier migranti, ma ha pure preso personalmente di petto la premier italiana accusandola di essere una «incapace» - è infatti superfluo. Tanto che persino nel felpato codice della diplomazia è difficile non definire quella della Francia una vera e propria «aggressione a freddo» (copyright Farnesina).
D'altra parte, l'ultima immagine che fotografa i rapporti tra Roma e Parigi risale solo a 43 giorni fa, quando all'hotel Amigo di Bruxelles - a margine del Consiglio europeo - Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron avevano avuto un lungo incontro serale a sancire un disgelo atteso da cinque mesi. Poi più niente, fino al blitz di ieri di Darmanin. Non concordato con l'Eliseo, ma - è la percezione della diplomazia italiana - comunque «totalmente ingiustificato», perché arriva da un ministro di peso dell'esecutivo francese oltre che, non è un dettaglio, da uno degli uomini più vicini a Macron. Ma potrebbe essere solo uno scivolone, una «voce dal sen fuggita» di chi ha il problema interno di gestire piazze difficili e, contemporaneamente, provare ad arginare la continua crescita di consensi del Rassemblement National. Non è un caso che Darmanin si spinga a dire che l'esecutivo Meloni è «un governo di estrema destra scelto dagli amici della signora Le Pen». Come se in Italia non si fosse votato solo sette mesi fa.
Quello che più ha irritato Meloni, infatti, è altro. Cioè la precisazione del ministero degli Esteri francese. Annunciata attraverso i consueti canali diplomatici, perché lo scivolone di Darmanin è indifendibile ed è inevitabile che Parigi cerchi di rimettere insieme i cocci. Ma la nota del Quai d'Orsay è davvero debolissima. Si limita ad evocare «lo spirito del trattato del Quirinale» (che peraltro ieri sera condivideva le stesse perplessità di Meloni sull'affondo «a freddo» di Parigi) e auspicare di lavorare insieme all'Italia sui flussi migratori in un «rapporto di reciproco rispetto».
È la goccia che fa traboccare il vaso. Perché se le parole di Darmanin - magari dettate anche da ragioni interne - potevano essere un incidente di percorso, la nota del ministero degli Esteri francese è stata lungamente ragionata. Quindi, dopo una prima valutazione prudente in quel di Palazzo Chigi, coinvolti i canali diplomatici più avvezzi alle sfumature, Meloni decide di serrare i ranghi. Parla nuovamente con Antonio Tajani, e i due concordano che il ministro degli Esteri annullerà la visita a Parigi - prevista per ieri sera - con la sua omologa Catherine Colonna. Una scelta, spiega il vicepremier nelle due conversazioni con la ministra degli Esteri francese, che «non è di ostilità alla Francia», ma che dopo le parole di Darmanin era «inevitabile». Per le stesse ragioni, il ministro dello Sport, Andrea Abodi, decide di disertare la «Notte delle idee», evento organizzato a Palazzo Farnese dall'ambasciata francese. Mentre l'ufficio diplomatico di Palazzo Chigi «congela» le interlocuzioni in corso con Parigi per un bilaterale e una cena all'Eliseo della premier italiana che si sarebbero dovuti tenere nelle prossime settimane. D'altra parte, il fastidio di Meloni è chiaramente percepibile non solo dallo «strappo» concordato di Tajani, ma pure dalla batteria di Fratelli d'Italia contro le «gravi e offensive parole di Darmanin».
Ma per Meloni ieri non è stata una giornata all'insegna dell'immigrazione solo sul fronte francese. La premier, infatti, ieri ha incontrato a Palazzo Chigi il generale Khalifa Belqasim Haftar, uomo forte della Cirenaica, decisivo per il controllo dei flussi migratori dalla Libia.
Un faccia a faccia di due ore che - è la percezione dell'entourage della premier - avrebbe irrigidito Parigi. Che, non casualmente (a differenza da quanto veicolano fonti governative) avrebbe deciso la ritorsione con quella che è sembrata una semplice «aggressione a freddo» di Darmanin.
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