Non appena si varca il portone dell'Eurotower, chi ha in tasca il santino di Keynes deve sfilarlo dal portafoglio e lasciarlo all'ingresso, in ossequio alla prima e unica regola dell'«Inflation Fight Club»: qui si parla solo d'inflazione. La decisione con cui, giovedì scorso, la Bce ha alzato di un altro mezzo punto i tassi nonostante la tormenta finanziaria in corso, è stata l'ennesima conferma che nel Dna della banca il cromosoma prevalente è quello della Bundesbank, ossessionata dai fantasmi di Weimar. La spinta inesausta a contrastare il caro-prezzi, una «mission» marchiata a fuoco nello statuto, ha portato negli anni Francoforte ad adottare inconsapevolmente quel «Non datemi consigli, so sbagliare da solo» che resta il più delizioso aforisma-paradosso di Leo Longanesi.
Così è dalla fondazione (1998), evento da gramaglie per gli orfani della sovranità monetaria nazionale. Dall'alto della sua irresponsabilità (in senso etimologico, non dovendo rispondere a nessuno di ciò che fa), Francoforte ha una coazione a ripetere gli stessi errori. L'olandese Wim Duisenberg, primo presidente ('98-03), riuscì a scansarli solo perché il destino ebbe la benevolenza di non piazzargli sul cammino qualche mina macroeconomica o finanziaria. Keinesiano convinto, messo lì dai tedeschi della Buba cambiò idea: ancora oggi viene ricordato più per l'inflessibile rigore finanziario che per aver propugnato una politica monetaria lasca.
Il peggio arrivò però con la reggenza di Jean-Claude Trichet (a sinistra). Un «coniglio bagnato», per dirla con l'Avvocato. Terrorizzato dal surriscaldamento dei prezzi del petrolio e degli alimentari (ma l'inflazione era appena al 4%!), nel luglio del 2008 il francese alzò i tassi nonostante fossero già in circolazione le scorie tossiche dei mutui subprime. Dopo mesi dopo Lehman sarebbe arrivata al capolinea. Risultato: l'eurozona venne risucchiata nella Grande recessione. Tempo un paio di anni, e l'ineffabile Jean-Claude raddoppiò la posta: mentre i governi, in affanno sul lato della finanza pubblica, tagliavano la spesa pubblica e aumentavano le tasse, tra l'aprile e il luglio del 2011 alzò il costo del denaro due volte. Innescando una crisi del debito sovrano che mise a repentaglio la stessa sopravvivenza dell'euro.
L'arrivo di Mario Draghi alla Bce ha rappresentato uno iato tra ciò che c'era stato prima e ciò che verrà dopo con Christine Lagarde (a destra). «Non sfidate la Bce» fu il monito implicito che sorreggeva il «Whatever it takes». Di fronte all'apertura dei rubinetti della liquidità, davanti allo scudo alzato a protezione dei bond sovrani, la speculazione si fece da parte. Eurolandia, Germania compresa, fu salva. Il tutto al netto della manifesta ostilità della Bundesbank al quantitative easing. All'ex governatore di Bankitalia qualcuno imputa di aver seminato, con le sue politiche di allentamento, i germi dell'inflazione attuale. Perdendo però per strada qualche tassello fondamentale. Il primo: alternative al Qe non c'erano. Il secondo: l'eurozona, all'epoca, si trovava in una situazione di quasi deflazione. Il terzo, e qui arriviamo agli sfondoni dell'era lagardiana inaugurati col celeberrimo «non siamo qui per chiudere gli spread», è che Francoforte ha per mesi derubricato a «fenomeno temporaneo» la risalita dei prezzi. Commettendo un esiziale errore di sottovalutazione nel momento in cui la forte ripresa economica post-Covid avrebbe invece permesso un'uscita morbida dalle misura di emergenza e interventi più graduali sui tassi.
Poi, la furia cieca verso un carovita generato soprattutto dallo choc energetico (che non si contrasta col restringimento monetario) ha preso il sopravvento. Historia magistra vitae, ma la Bce non pare voler far tesoro dei propri errori. Continua a sbagliare da sola. Il problema è che il prezzo lo paghiamo sempre noi.
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