di Gianluca Montinaro*
Per un attimo ho creduto che ancora un barlume di umanità, se non di civiltà, animasse la magistratura del nostro Paese. Il senso logico mi diceva che sarebbe stato impossibile che un tribunale vietasse a un uomo di 76 anni, affetto da tumore, di curarsi. Eppure proprio così è stato. Con la sua decisione, il tribunale di sorveglianza di Roma non solo ha negato a Marcello Dell'Utri gli arresti domiciliari ma ha altresì sancito, se ancora ce ne fosse bisogno, il carattere politico di questa detenzione, nonché l'accanimento persecutorio, come ha notato a questo proposito il direttore Alessandro Sallusti, chiedendosi che cosa avesse di differente Adriano Sofri da Marcello Dell'Utri.
Conosco il «dottor» Dell'Utri da oltre quindici anni: da quando, ventenne, mi recai per la prima volta in visita alla Biblioteca di via Senato, a Milano. Ai miei occhi di studente universitario quel luogo mi apparve come uno scrigno delle meraviglie. Scaffali e scaffali di libri antichi, perlopiù in prima edizione. Con grande affabilità il «dottore» (così lo chiamano coloro che lavorano con lui) mi disse che avrei potuto consultare liberamente quei volumi per i miei studi. Così fu e, da quel primo incontro, tanto è seguito. E quella Biblioteca (una delle poche istituzioni culturali del nostro Paese a non aver mai chiesto sovvenzioni pubbliche), con le sue molteplici attività e pubblicazioni, rimane una delle prove tangibili di quanto Dell'Utri abbia dato alla comunità.
Non mi stupisce la decisione del «dottore» di intraprendere lo sciopero della fame e delle cure. Con il distacco che lo contraddistingue (a mezzo fra il fatalismo di Tomasi di Lampedusa e l'amara ironia di Gesualdo Bufalino), non penso abbia mai creduto possibile che un tribunale italiano gli concedesse alcunché. Attento lettore dell'Utopia di Tommaso Moro, Dell'Utri ben conosce «l'arbitrio delle corti», un tempo prone «all'indiscutibile prerogativa regale» e ora sviate «da interpretazioni stiracchiate della legge». Adesso però, oltre alla speranza che l'equanimità di quel «giudice a Berlino» si rintracci nella Corte europea dei diritti dell'uomo (che già chiarimenti su molti punti controversi ha chiesto alla giustizia italiana), c'è l'obbligo morale di agire. Chi può farlo ha il dovere di farlo. Non solo per non avere sulla coscienza la morte di un uomo. Ma per dimostrare che l'Italia è ancora un Paese civile, ove la tutela dell'individuo e della sua dignità viene prima del resto.
*Direttore della Biblioteca
di via Senato (Milano)
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