Tra un aoristo e un futuro passivo, la versione di greco al Classico regala una piccola lezione ai profeti della giurisprudenza creativa che in questi giorni abbondano sui temi più disparati, dal gender «percepito» al diritto all'eutanasia. Nel brano Minosse o della Legge attribuito a Platone - più probabile fossero i suoi discepoli - Socrate (nella foto) parla con un anonimo interlocutore della differenza tra la verità (aletheia) e l'opinione (doxa), robine da tenere rigorosamente ben separate, come teorizzava anche Parmenide. È un testo che ci interroga sulla necessità di legiferare non sulla base dei propri convincimenti o su ciò che appare, ma che invita la politica a ricercare il vero, unico elemento che dà fondamento alla legge. In questo il re di Creta, giudice delle anime col suo scettro d'oro, è insuperabile anche per la sua esclusiva frequentazione (phoitan) con babbo Zeus ogni nove anni. «All'Università ci è stato insegnato che la legge è una fotografia di fatti e certezze. Quando la legge smette di fotografare la realtà diventa finzione o, più sottilmente, opinione. Occorre ritornare agli insegnamenti classici e, con essi, all'essenza e alla funzione della legge che tratta la realtà attraverso un'indagine razionale», ricorda al Giornale il giurista Ivano Iai. Una legge è buona non perché accontenta il desiderio ma perché arriva dopo una sapiente e costante ricerca del Vero e del Bene.
Peccato che di legislatori illuminati o divini ne siano rimasti pochi. Potrebbe bastare anche una passeggiatina negli Inferi, una nekyia omerica. Purché la lezione sui rischi della giurisprudenza creativa non sia... platonica.
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