Senza il Cavaliere spariscono i fantasmi. Resta solo la mafia

"Il Cavaliere è stato il Viagra di un certo giornalismo, un po' come Andreotti negli anni Novanta-Duemila, perché politicizzando l'antimafia gli ha dato dignità ideologica"

Senza il Cavaliere spariscono i fantasmi. Resta solo la mafia
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Non se ne sente la mancanza, ma che fine hanno fatto i cantori dell'Antimafia? Perché si sono eclissati, quasi nascosti? Come è cambiata la mafia dopo la fine di Matteo Messina Denaro, trattato come un mezzo sfigato, senza segreti, solo perché l'ha arrestato l'esecutivo di centrodestra? Perché la camorra è tornata a mostrare il suo volto più violento ma è (quasi) sparita da Caivano, tanto che il capo dello Stato Sergio Mattarella ha voluto sigillare questa vittoria con la sua visita? C'entra il decisionismo del governo? O le mosse del neo procuratore capo Nicola Gratteri, che sul Giornale ha lodato le misure antimafia del premier Giorgia Meloni?

L'altro giorno Roberto Saviano se l'è presa con la suora considerata dai pm di Brescia una postina di 'ndrangheta per sparare (di nuovo) a palle incatenate sulla Chiesa e sulla famiglia. Peccato che la religiosa sia stata scarcerata e le accuse notevolmente ridimensionate. Cosa sta succedendo in Calabria dopo che l'inchiesta 'Ndrangheta stragista ha subito uno stop inaspettato in Cassazione? Anziché indagare, il sedicente giornalismo pistarolo e complottista aspetta chi ancora ravana inutilmente nel passato a caccia di scheletri che portino a Silvio Berlusconi, ma ormai non ci crede più nessuno. Neanche Michele Santoro, convinto dal sedicente pentito Maurizio Avola che su Capaci e via d'Amelio c'entri la mafia e basta. Dalle indagini sulla morte di Piersanti Mattarella, esattamente 45 anni fa, sono state spazzate via le fascinazioni sui servizi colorati di nero e su manine o manone eversive: i veri killer del fratello del capo dello Stato sarebbero due mafiosi.

Sarà che oggi le Procure hanno (quasi) chiuso i rubinetti, le notizie bisogna andare a cercarsele altrove. Lo sa bene Klaus Davi, un rompiscatole che anziché elemosinare qualche ordinanza va a casa dei boss a San Luca e cerca i mafiosi nelle curve degli ultras milanesi: «Il Cavaliere è stato il Viagra di un certo giornalismo, un po' come Andreotti negli anni Novanta-Duemila, perché politicizzando l'antimafia gli ha dato dignità ideologica». Oggi nella polvere con accuse infamanti ci sono storiche icone antimafia dalle carriere specchiate come Federico Cafiero de Raho, Roberto Scarpinato, Gioacchino Natoli, Giuseppe Pignatone o Ilda Boccassini, sulle cui indagini a sinistra è caduta una coltre di garantismo ipocrita.

C'è un revisionismo giudiziario che ha bisogno di un linguaggio meno paludato, non è un caso che il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo abbia scelto una giornalista pop come Francesca Fagnani per presentare il bilancio del suo primo biennio nell'Aula «Giallombardo» della Suprema Corte al Palazzaccio, due giorni dopo aver presentato a Roma il documentatissimo volume scritto dalla conduttrice di Belve su Diabolik e la mala nelle curve romane. La narrazione mainstream deve cercare nuovi canali per parlare (finalmente) ai giovani della mafia. Mentre le vedove delle veline tacciono.

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