Due «no» e una astensione. Alla fine, Giorgia Meloni tira dritto e boccia, di fatto, quello che ha più volte definito un «pacchetto pre-confezionato» di nomine. Lo fa modulando il voto caso per caso: si astiene sulla riconferma della tedesca Ursula von der Leyen alla Commissione, mentre boccia il portoghese Antonio Costa al Consiglio e la estone Kaja Kallas come Alto rappresentante per la politica estera. Insomma, la premier tiene aperto un canale con il Popolari e con la presidente uscente della Commissione, mentre boccia i candidati di Socialisti e Liberali. Un voto che da un punto di vista pratico non incide, perché l'Italia da sola non ha potere di veto. Ma che è un segnale politico, perché arriva da un Paese fondatore dell'Unione e che è terzo per numero di abitanti. E che fino ad oggi non si era mai espresso in dissenso dagli altri partner europei in un passaggio tanto importante. Con un dettaglio: alla fine i candidati che Meloni boccia sono uno espressione di S&D e l'altro di Renew. Insomma, Olaf Scholz ed Emmanuel Macron. Che ormai dal G7 di Borgo Egnazia non perdono occasione per affondare colpi sulla premier italiana.
È la fine di una giornata lunghissima, iniziata con un arrivo a Bruxelles che ha visto la premier accolta da una buona e una cattiva notizia. La prima sono i segnali di fumo arrivati dal Ppe, con diverse mano tese verso la premier che hanno l'evidente obiettivo di facilitare la trattativa che si sarebbe aperta di lì a poco al Consiglio europeo. La seconda è lo strappo dell'ex primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, che sceglie davvero il giorno peggiore per mettere pubblicamente in dubbio la permanenza dei venti eurodeputati del Pis in Ecr. Il gruppo dei Conservatori, infatti, è riuscito con fatica a scavalcare Renew per numero di parlamentari. Ed è questo uno dei punti di forza del ragionamento della premier italiana quando contesta il metodo utilizzato da Popolari, Socialisti e Liberali nell'individuare i nomi dei candidati ai vertici delle istituzioni comunitarie. Non è un caso che sul punto abbia insistito anche mercoledì durante le comunicazioni alle Camere.
Ed è proprio da qui che parte Meloni quando, ormai passate le dieci di sera, i ventisette capi di Stato e di governo riuniti al tavolo del Consiglio Ue affrontano il nodo più delicato, quello dei top jobs. Una partita che la premier gioca in completa solitudine, perché per l'occasione i cellulari non sono stati ammessi nella sala come pure lo sherpa che solitamente accompagna i singoli leader. Dopo un pomeriggio caratterizzato da una girandola d'incontri e ripetuti confronti incrociati, Meloni entra nella riunione a porte chiuse con l'idea di dare un segnale. E, dunque, non dare il suo benestare a quello che ha più volte definito un «pacchetto pre-confezionato». Certo, sul tavolo della trattativa c'è anche il peso del portafoglio che sarà affidato al commissario italiano, che la premier continua a chiedere abbia anche l'incarico di vicepresidente esecutivo della Commissione. Di fatto un vice-von der Leyen. Sul punto, come sul perimetro del portafoglio economico, ci sarebbero stati diversi tira e molla nel corso della giornata.
Meloni, però, arriva alla partita finale portando sul tavolo esattamente le stesse perplessità che aveva alla partenza da Roma e ribadendo la sua «contrarietà al metodo seguito da Ppe, S&D e Renew».
Su von der Leyen, spiegano fonti di Palazzo Chigi, ci si è astenuti «nel rispetto delle diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza di governo», nell'attesa di «conoscere le linee programmatiche e aprire una negoziazione sul ruolo dell'Italia».
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