N on la apprezzavano per niente, ma la hanno votata e adesso annunciano che sono pronti a rimediare (ma con il referendum). Non era di sinistra, e soprattutto non era del Pd, la riforma tagliapoltrone che, in un pomeriggio di ottobre, ha rimpicciolito gli emicicli di Camera e Senato, meno 345 parlamentari, e restituito il sorriso a Luigi Di Maio. Democrazia, bilanciamento? Tiè.
Il voto è stato plebiscitario, ma cosa si può dire della coerenza? Roberto Giacchetti, deputato del Pd e oggi italiano vivo con Matteo Renzi, ha passato una vita (da radicale) chiedendo rappresentanza per le minoranze ed è finito tra i riluttanti che hanno votato la riduzione dei seggi. Per fedeltà al nuovo governo, e al M5s, ha rinnegato (e non ha atteso neppure che la campanella suonasse tre volte) la sua precedente fede. Ha già comunicato che saboterà la riforma e che andrà in giro per l'Italia a diffondere il vecchio testamento e riabilitare l'antico parlamento. Torna insomma a quello che sa fare e spera di cancellare quello che ha fatto: «Sarò il primo a costituire i comitati per il no alla riforma». Ha tre mesi di tempo per raccogliere cinquecentomila firme e ha promesso che ci riuscirà. Ma non era meglio votare no, come del resto avevano in precedenza votato tutti i parlamentari del Pd in tre e ben passate letture? Prima di ribaltare il governo, e quindi opinione sul M5s, nessuno più di loro si era opposto a questa riforma, diciamolo, tanto demagogica e anticasta quanto davvero poco utile (lo pensa anche mister forbici, Carlo Cottarelli) ai nostri scalcagnati conti pubblici. «Progetto peronista», «collasso democratico», «scorciatoia» per indebolire il parlamento... Non si sa se saranno le prossime sciagure che ci attendono, ma si sa che erano parole del Pd riguardo alla legge. Si vuole dire che la cattiva figura, e l'opportunismo, in questa circostanza era tale che ci si immaginava il silenzio, la contrizione. Ci si è sbagliati, al punto che, da ieri, non si contano più le dichiarazioni contro la novità e proprio per bocca del Pd.
Per non chiamarla altrimenti, Matteo Orfini la chiama sincerità («Abbiamo approvato una riforma alla quale avevamo votato contro per tre volte. Lo dico con sincerità. Mi è costato moltissimo e penso che sia stato un passaggio gestito malissimo») mentre il deputato Nicola Pellicani, ancora più esplicito di lui, l'ha chiamata «schifezza, un suicidio» per cui è convinto di finire sui libri di storia insieme al suo compagno, Carmelo Miceli, che all'Huffington Post, ha confessato di sentire il fuoco sotto e lui bollire in pentola: «Siamo dei tacchini». E, a volerla dire tutta, come si può votare una riforma quando perfino il capogruppo, Graziano Delrio, in aula riconosce: «Avevamo e abbiamo grandi perplessità»? Singolare e irraggiungibile è stata tuttavia Maria Elena Boschi che, prima del voto, ha chiarito subito con quale animo fermo diceva sì: «Votiamo questa riforma, ma certo non migliorerà il funzionamento del parlamento. Andremo a commettere il nostro dovere». Onore nel disonore a Ettore Rosato, il solo che ha dichiarato quello che tutti sanno: «La voto soltanto perché inserita in un accordo fra Pd e M5s».
Sarà, ma fa impallidire perfino uno che ne ha viste (e
compiute) tante come l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti: «Un suicidio. Hanno trattato democrazia e seggi come il macellaio fa con la carne». La verità? L'hanno venduta per stare al governo. Con la poltrona e pure scontenti.
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