È la cronaca di un naufragio annunciato. E in gran parte preparato, fin dal primo giorno.
Chi infatti seppe leggere tra le righe delle cavillose e bizantine motivazioni della Consulta sul pacchetto originario degli otto referendum sottoscritti dai cittadini, e della inconsueta e assai politica conferenza stampa tenuta dal suo presidente Giuliano Amato per darne notizia, spiegò subito che la decisione della Corte Costituzionale aveva un risultato ben preciso. E, secondo molti, ben mirato: togliere di mezzo i tre quesiti più popolari e mobilitanti, quelli che rischiavano di trascinare milioni di elettori ai seggi, e lasciare in piedi quelli più «tecnici» e obiettivamente più complessi da spiegare agli elettori.
Via l'eutanasia: «Bisogna tutelare le persone deboli e fragili», disse Amato. Via la legalizzazione della cannabis: «Avrebbe potuto farci violare obblighi internazionali», spiegò Amato.
Via la responsabilità civile diretta che avrebbe costretto i magistrati a rispondere dei propri errori: «Quesito più innovativo che abrogativo», sentenziò Amato.
«La Consulta ha fatto esattamente ciò che il suo presidente aveva detto di non volere fare: ha cercato il pelo nell'uovo», accusò il radicale Riccardo Magi. «Dubito che a questo punto i referendum possano raggiungere il quorum», fu la previsione di Marco Cappato, promotore del quesito sull'eutanasia.
Previsione confermata dai fatti. Al punto che in diversi seggi, ieri, le schede referendarie venivano proposte come «optional» e non automaticamente consegnate. Di lì in poi, la campagna referendaria è stata tutta in salita per i sostenitori dei cinque quesiti superstiti (Radicali e Lega in prima fila), e in discesa per chi puntava sul fallimento del quorum. I partiti, in linea di massima, si sono imboscati, evitando di entrare nel merito delle richieste referendarie e di persino di mettere la faccia sul «no», quando si erano schierati contro: molto meglio lasciar fare il lavoro sporco all'ignavia di chi preferisce l'ombrellone e la pasta alle vongole alla fatica di informarsi e recarsi a votare.
Persino Matteo Salvini, che aveva impegnato la Lega in prima fila, nelle ultime settimane di campagna elettorale ha parlato di tutto (inflazione, decisioni della Bce, fantomatici piani di pace concordati con addetti di ambasciata russa e faccendieri campani) piuttosto che di garantismo, giustizia giusta e referendum: troppo alto il rischio di restare sotto le macerie della mancata affluenza. Incentivata anche dalla decisione governativa di far votare in un unico giorno, a metà giugno. Così, a portare alta la bandiera son rimasti in prima linea alcuni dirigenti del Carroccio, a cominciare da Roberto Calderoli, i soliti radicali, e alcuni leader politici che si sono spesi per il sì invitando al voto, da Forza Italia a Matteo Renzi o Carlo Calenda. E, sul fronte opposto, una schiera di magistrati da trincea impegnati a difendere le bandiere corporative, spesso con proclami tanto terrorizzanti quanto del tutto infondati: «Se passano i referendum non potremo più arrestare nessun criminale», hanno strillato alcuni procuratori.
E pazienza che non sia affatto vero, e che siano stati smentiti dagli addetti ai lavori: la cappa di silenzio imposta da quasi tutti i media non ha lasciato trapelare quasi nessuna informazione, evitando di aprire il dibattito. Sulla Rai, a parte il monologo di Luciana Litizzetto sugli elettori troppo scemi per capire i quesiti - che ha portato ad un severo richiamo dell'Agcom - sono andate in onda le solite burocratiche e inguardabili tribune politiche e poco altro.
Nonostante lo sciopero della fame di Calderoli, che ora denuncia «un complotto» contro i referendum, a fare «servizio pubblico» dedicando un approfondimento alle ragioni del sì e del no è rimasto il solo Enrico Mentana. Un po' poco per trascinare alle urne.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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