Poche cose al mondo rendono tangibile l'impotenza quanto il non arrivare in tempo. Chissà se hanno fatto tardi loro o se è stato lui a non aspettare. Ma sabato, dietro a quella porta, la gioia da consegnare si è corrotta in tragedia. Quando gli emissari dell'Idf sono arrivati a casa di Yossi Meir, papà di Almog, uno dei quattro ostaggi israeliani liberati poche ore prima in un blitz dei militari a Nuseirat, lo hanno trovato morto. Erano andati a dirgli che suo figlio era libero, che erano riusciti a riportarlo da lui. E invece non c'era più lui. Lasciarsi è un'esperienza continua. Yossi Meir era malato e viveva da solo a Kfar Saba, mentre il figlio Almog, prima di essere catturato dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, viveva a Or Yehuda. Yossi si era augurato di vedere suo figlio dietro a quella volta ogni volta che qualcuno aveva bussato, aveva sperato di sentire la sua voce ogni volta che era squillato il telefono, magari una sola manciata di parole graffiate dalla lontananza attutite dalle pareti strette di un luogo in cui nascondersi dopo essere sfuggito ai rapitori. «Papà» quello avrebbe fatto in tempo a dirlo da ovunque, e sarebbe bastato. Quattro lettere per riconoscersi in un rapporto che è fatto solo a due. E invece i militari erano andati a offrirgli di meglio di una telefonata: tutto quanto suo figlio in carne ed ossa, sano, vivo, di nuovo a casa. Almog è tornato mentre Yossi se ne andava: l'inferno delle variabili.
Con Almog finalmente libero, ma libero di non trovare niente. Otto mesi e un giorno di prigionia, ed è in quel giorno che si è giocato tutto. Non era quello che aveva messo in conto di perdere. E non era questo il modo in cui avrebbe sperato di tornare.
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