Il faccia a faccia russo-americano di Ginevra si chiude con sensazioni contraddittorie. Da una parte belle promesse di ulteriori capitoli diplomatici e garanzie verbali da parte russa di non voler invadere l'Ucraina; dall'altra l'esplicita conferma della percezione americana dell'esistenza di «un'intera agenda russa di aggressioni» ai danni dei suoi vicini, che non sono soltanto l'Ucraina. Da qui la conferma degli avvertimenti della Casa Bianca al Cremlino: non toccate Kiev o ve la faremo pagare molto cara.
Rimaniamo dunque in questo primo scorcio di 2022 a un passo da un possibile, folle conflitto in Europa. È opportuno cercare di riassumere come ci siamo arrivati. Gli ammiratori di Vladimir Putin amano descriverlo come un grande stratega geopolitico: in realtà il leader russo altro non fa che alimentare divisioni nel fronte occidentale per poi cercare di sfruttarle. Da quando, ormai più di dieci anni or sono, ha sposato un'ideologia nazional-imperiale, ci vuole divisi tra europei e americani, tra europeisti e sovranisti, e tutti dipendenti dai rubinetti del suo gas siberiano che siamo tanto fessi da comprare a miliardate di euro. Intanto che aspetta di verificare se le attese divisioni sull'Ucraina si manifesteranno apertamente, il che resta da vedere, Putin tiene centomila uomini in assetto di guerra ai confini di un Paese indipendente, proclamando di non volerlo minacciare. Anzi, afferma di essere lui il minacciato, pur sapendo benissimo che la Nato non ha la minima intenzione di attaccare il suo Paese, né ne trarrebbe alcun vantaggio. Così alza la voce e pretende non solo che Biden gli metta per iscritto che nessun altro Paese ex sovietico potrà mai entrare nell'Alleanza Atlantica, ma addirittura che questa alleanza si ritiri di fatto dai Paesi che ormai trent'anni fa erano soggetti (non alleati) a Mosca: a partire dalla Romania e dalla Bulgaria, come ha specificato ieri il ministro degli Esteri Sergei Lavrov.
Perché ora? La novità della crisi attuale sta in questo innalzamento a livelli da guerra fredda dell'aggressività del Cremlino. Evidentemente scosso dalla determinazione del suo unico vero oppositore politico interno, Aleksey Navalny, a partire dal 2020 Putin si è dedicato dapprima a liquidare lui e quel poco che rimaneva della finta democrazia russa, poi ha rivolto il suo sguardo allo spazio ex sovietico. Consapevole del tracollo della sua popolarità in patria, egli conta di recuperarla solleticando la nostalgia imperiale dei russi, e poiché ritiene che America ed Europa manifestino debolezza politica, vuole agire adesso per conseguire il suo sogno malsano: passare alla Storia come l'uomo che ha ricostituito l'impero di Mosca, a partire dall'ex Urss e fino a ricreare un'egemonia sull'Europa orientale.
Putin accampa giustificazioni storiche per la prima parte del suo disegno, quando afferma che mille anni fa russi, ucraini e bielorussi erano un popolo solo e che da allora nulla è cambiato. Pretese, in realtà, antistoriche, proprio perché non tengono in alcun conto la volontà di quei popoli, chiaramente espressa col voto (in Ucraina) o nelle piazze, come recentemente in Bielorussia.
Qui risalta la differenza fondamentale tra l'alleanza occidentale e le ambizioni imperiali di Mosca: la prima è costruita su deliberazioni di Parlamenti democraticamente eletti, le seconde sulla forza e sulla menzogna. Proprio la Storia dovrebbe dunque insegnare: come a Monaco nel 1938, sacrificare la libertà di un popolo porrebbe solo le basi per una crisi molto più grave.
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