Quarant'anni dopo, è tutto come prima. D'accordo, al posto dell'Unione Sovietica c'è la Russia di Putin, ma in Italia il clima di terrore alimentato da politici e commentatori a proposito di una «imminente catastrofe nucleare» mistifica la realtà allo stesso modo. Se nei primi anni Ottanta il «guerrafondaio» indicato al pubblico disprezzo dai pacifisti a senso unico era Ronald Reagan, oggi è «guerrafondaio», secondo i loro eredi, chiunque non comprenda che il nostro interesse di italiani e di europei è quello di distaccarsi subito dal «bellicismo angloamericano» per negoziare con Putin - sulla pelle degli ucraini invasi, ma che importa... - una pace immediata come che sia, purché ci salvi dall'Olocausto incombente.
Il presidente americano era colpevole - agli occhi dell'immortale Trimurti anti-Usa di matrice comunista, neofascista e cattolico-terzomondista - di aver reagito a una mossa assai minacciosa del leader sovietico Yuri Andropov, che aveva fatto puntare contro l'Europa folte batterie di missili SS-20 munite di testate atomiche. Il suo obiettivo era conquistare l'egemonia in Europa senza colpo ferire. Reagan decise che si dovesse reagire installando in quattro Paesi europei membri della Nato, tra cui l'Italia, altrettanti missili delle classi Pershing e Cruise. Il Cremlino alimentò allora una psicosi di massa, facendo diffondere dai partiti comunisti fratelli (quello italiano si dichiarava cugino alla lontana, ma partecipò molto volentieri) una propaganda terroristica secondo la quale la tragedia nucleare era imminente per colpa di Reagan. Affollatissime manifestazioni «per la pace» (cioè contro i missili americani) furono subito lanciate in tutta l'Europa occidentale, il Pci e i suoi accodati riesumarono la bandiera multicolore della pace e fu un fiorire di slogan demenziali al servizio dell'idea folle di calare le braghe pur di sopravvivere da servi del nuovo padrone: «Disarmo unilaterale», «Proteggere la pace senza armi», «Meglio rossi che morti». A quest'ultimo slogan particolarmente meschino, il filosofo francese André Glucksmann replicò con uno suo: «Né rossi né morti». Intendeva dire che la scelta non era affatto (come volevano farci credere Andropov e i suoi troppi amici in Occidente) tra la resa e l'olocausto atomico, ma tra la resa e una giusta reazione che avrebbe reso quell'olocausto impossibile. È ciò che accadde: i Pershing e i Cruise, pur demonizzati come sicuri portatori di guerra, furono installati (anche in Italia, nella base siciliana di Comiso), mantennero l'equilibrio atomico in Europa e quindi la pace di cui godiamo tuttora. E oggi? Stesso schema. Un Putin sull'orlo di una sconfitta umiliante minaccia a mezza bocca l'impiego di ordigni nucleari in Ucraina e subito scatta il tam tam: olocausto atomico imminente, pace subito o siamo tutti morti. I degni eredi dei pacifisti a senso unico degli anni Ottanta sono lì a replicare (molti nemmeno lo sanno) le scemenze di allora: siamo a un passo dall'ecatombe, a due dal day after e solo la resa (degli ucraini) ci salverà. Non è affatto così. Con una siffatta «pace subito», Putin interpreterà che minacciare paga e appena ne avrà le forze ripartirà col suo progetto di guerra per passare alla Storia come il ricostruttore dell'Impero russo.
L'eterno ritorno dei fintopacifisti ha una strategia fallimentare, dettata dall'odio verso la nostra stessa civiltà e che ci porterebbe nel futuro prossimo solo una guerra peggiore dell'attuale, stavolta in casa nostra.
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