Spari sulla folla e statue abbattute: "In Afghanistan niente democrazia"

A Jalalabad i miliziani uccidono 35 persone che manifestavano per la bandiera nazionale. Hashimi: "Il sistema politico sarà solo la sharia". L'ex Ghani: "Io via a mani vuote, tornerò presto"

Spari sulla folla e statue abbattute: "In Afghanistan niente democrazia"

Il volto buono dei talebani è durato pochi giorni, forse poche ore. Appena il tempo che gli afghani provassero a rialzare la testa e loro gliel'hanno schiacciata come fossero vermi.

È finito nel sangue il giorno dell'orgoglio afghano. Morte a Jalalabad, capolouogo della provincia di Nangahar, nell'Est del Paese. I miliziani talebani hanno sparato contro i cittadini che volevano rimettere sul pennone la bandiera nazionale afghana, rossoneroverde, al posto del lugubre drappo bianco con i versi neri del Corano del neo-rinato Emirato islamico. Ieri era la vigilia dell'anniversario dell'indipendenza del Paese dal dominio britannico, conquistata il 19 agosto del 1919. I talebani hanno sparato dapprima in aria e poi in maniera indiscriminata e picchiato la folla: all'inizio si parlava di tre morti ma in serata una testimonianza raccolta da Sky Tg 24 ha alzato di parecchio il conto delle vittime, portandolo a 35. Molti anche i feriti. Circolano brevi video che mostrano camion zeppi di giovani che nel centro di Jalalabad dispiegano un'enorme bandiera nazionale per sostituirla a quella talebana. Subito arrivano i miliziani islamici armati che cominciano a sparare una dopo dietro l'altro. Il giorno prima erano scesi in piazza in difesa della bandiera anche i cittadini di Khost, sempre nella parte orientale del Paese, e anche in questo caso erano stati accolti dagli spari talebani, pur se senza vittime.

Eccola, la repressione dei talebani. Ecco, il vero volto della sharia. Ma quale tolleranza, ma quale democrazia. I mullah stanno ancora decidendo quale forma istituzionale avrà il nuovo Afghanistan ma una cosa è certa: «Non ci sarà alcun sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro paese - dice un esponente di spicco dei talebani, Waheedullah Hashimi -. Il sistema politico che applicheremo è chiaro. È la legge della sharia e basta». Per Hashimi nel fine settimana si terrà una riunione dei vertici del movimento per discutere il futuro assetto del governo e potrebbe essere istituita una nuova forza nazionale di sicurezza che includa i propri membri e militari governativi disposti a unirsi, in particolare ufficiali che hanno ricevuto formazione all'estero.

Paura, minaccia, disprezzo. Che si manifesta anche in gesti come la decapitazione della statua dedicata nella provincia di Bamiyan ad Abdul Ali Mazari, un leader locale sciita che nel 1995 i talebani del primo emirato fecero prigioniero, mutilarono e torturarono fino alla morte. Ali Mazari era stato nominato «martire dell'unità nazionale» nel 2016. Un gesto dalla grande portata simbolica, anche se una perdita artistica meno lancinante rispetto a quella prvocata, dal cannoneggiamento e dalla distruzione con l'esplosivo delle millenarie statue di Buddha scavate nella roccia sempre nella provincia di Bamiyan, che avvenne nel marzo 2001.

I talebani hanno sparato anche all'aeroporto di Kabul, forse il teatro principale della tragedia afghana, per disperdere la folla che, come nei giorni precedenti, cercava di assaltare i cancelli dello scalo per provare a salire su qualsiasi velivolo capitasse a tiro. I feriti, provocati però dalla calca e non dagli spari, sarebbero almeno diciassette. Ieri diversi voli (francesi, olandesi, tedeschi, cechi) sono riusciti a decollare dalla pista, alcuni pare semivuoti. La capitale è quasi anestetizzata. «La situazione in città sembra migliorata - racconta in un collegamento Zoom Alberto Zanin, coordinatore medico di Emergency a Kabul -. Nella notte abbiamo comunque sentito ancora raffiche di kalashnikov nel nostro distretto, ubicato vicino alla cosiddetta Green Zone, il quartiere dove si trova il palazzo presidenziale e le ambasciate».

E ieri è ricomparso il presidente ormai in esilio Ashraf Ghani, che in un videomessaggio ha detto di trovarsi negli Emirati Arabi e di lavorare «per tornare in Afghanistan e combattere per la sovranità del Paese. Tornerò presto».

Ghani ha anche voluto smentire quanto riferito dall'ambasciatore afghano in Tagikistan secondo cui domenica sarebbe fuggito con 169 milioni di dollari. «Accuse senza fondamento. Sono andato via a mani vuote». Ma la vergogna resta.

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