"Via i nomi": cosa voleva nascondere Speranza

Il Tar aveva condannato il ministero a mostrare i verbali della task force Covid. Il dicastero voleva coprire i nomi dei partecipanti. Ma ora ha ceduto

"Via i nomi": cosa voleva nascondere Speranza

Sei mesi e alla fine hanno dovuto cedere. Finalmente il ministero della Salute ha premuto "invio" e spedito a chi di dovere i verbali della task force che un anno fa decise le sorti della guerra italiana al virus. È stato un parto. Il dicastero guidato da Speranza infatti ha provato fino all'ultimo ad opporsi alla decisione dei giudici del Tar: ha fatto melina, ha avanzato una “istanza di chiarimenti”, ha cercato di prendere tempo per allontanare il giorno in cui gli italiani avrebbero potuto conoscere la verità su quel tavolo del ministro. Adesso però ci siamo.

Per capire occorre prima fare un passo indietro. La prima riunione della task force risale al 22 gennaio del 2020, e da quel giorno gli esperti si riuniscono ogni giorno alla presenza del ministro. Intorno al tavolo elaborano proposte. Il 27 gennaio ascoltano Ranieri Guerra, l’inviato Oms finito al centro del pastrocchio sul dossier Oms. Ed è lì che decidono cosa fare, e cosa non fare, del piano pandemico italiano. Venne subito attivato? Sì o no? Ma soprattutto: di chi fu l’idea di mettersi a scrivere un “piano” alternativo dedicato al Covid? Per dare una risposta a queste domande sarebbe bastato leggere i verbali delle riunioni, che però erano tenuti secretati.

Ad ottenerne una copia ci aveva provato lo scorso dicembre Galeazzo Bignami, aprendo così il secondo capitolo di una vicenda piuttosto intricata. Sotto Natale il deputato FdI presenta un accesso civico agli atti, ma viene respinto. Decide allora di fare ricorso al Tar del Lazio, e anche qui la battaglia (alla faccia della trasparenza) si fa agguerrita: l’avvocatura dello Stato si oppone, gioca sui cavilli, parla dell’esistenza di “resoconti” privi di ufficialità che dunque non possono essere divulgati. Ma alla fine perde. A inizio maggio la sezione III quater del Tar, infatti, condanna il ministero della Salute alla “ostensione dei resoconti, verbali o documenti” in possesso del ministero entro un termine di 30 giorni. L’ultimatum era scaduto ieri, e infatti il ministero ha ottemperato all'obbligo, ma non prima di aver cercato in ogni modo di fare melina.

Il ministero infatti sosteneva (e forse sostiene ancora) che gli scritti siano solo dei “brogliacci” e dunque non abbiano i crismi burocratici di “verbali in senso tecnico e formale”. Durante le riunioni, insomma, non ci sarebbe stato un funzionario pubblico incaricato di redigere i documenti, i partecipanti non sarebbero stati consapevoli della realizzazione dei verbali e non li avrebbero “letti, approvati e sottoscritti”. Come di solito si fa in occasioni ufficiali. Anziché spiegare per quale motivo una task force così importante si sia riunita “in via informale” e senza rendere conto al Paese delle sue attività, il dicastero lo scorso 19 maggio ha provato a giocare la carta della “privacy”. “Quei brogliacci - si leggeva nella richiesta di chiarimenti - saranno destinati ad essere resi pubblici” e quindi “i soggetti (liberamente) intervenuti agli incontri potrebbero dover essere chiamati a rispondere all’opinione pubblica di posizioni e valutazioni non espresse o comunque malamente interpretate, con il rischio di evidenti e gravi danni all’immagine, e rischierebbero l’esposizione a possibili iniziative anche processuali di soggetti che si pretendano lesi”.

Direte voi: ma cosa avranno mai detto di così pericoloso da rischiare querele o denunce? Mistero. Tuttavia per l’avvocatura si presentavano due “problematiche” stringenti. Primo: visto che chi ha redatto i verbali non era stato delegato a farlo, quanto scritto all’interno sarebbe il frutto della sua “percezione” e dunque non sarebbe possibile certificare la correttezza delle “presunte affermazioni” attribuite ai vari partecipanti alle riunioni. Secondo: anche qualora avesse riportato ogni singola virgola, gli esperti “erano consapevoli di partecipare ad incontri informali” ed erano convinti che “dei loro interventi non sarebbe stato redatto alcun verbale”. Non pensavano insomma che un giorno le loro frasi potessero diventare di dominio pubblico.

E quindi? Quindi il ministero ha cercato di usare il cavillo di “privacy” per tentare di boicottare l’ostensione dei documenti. L’avvocatura, infatti, prima di fornire i brogliacci avrebbe voluto “omettere i nominativi degli intervenienti e ogni altro elemento che ne consenta l’identificazione”. Oppure, in alternativa, avrebbe voluto chiedere loro l’assenso esplicito alla pubblicazione “delle parti che li riguardano”, cancellandole - ca va sans dire - nel caso in cui avessero negato l’autorizzazione. Se la linea del ministero fosse passata, Bignami avrebbe ricevuto sì i “brogliacci”, ma gli sarebbe stato impossibile capire chi avesse detto cosa.

Dunque atti fondamentali per ricostruire la storia del Covid in Italia sarebbero diventati con un tratto di penna carta straccia. Per fortuna però il blitz non è andato in porto. E ieri i verbali sono usciti dalle segrete stanze di Viale Lungotevere Ripa 1 con i soli numeri di telefono e le mail oscurate. Ora non resta che leggerli.

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