A un signore che una manciata di anni fa è uscito da Unicredit - dopo averne aperto le porte ai libici e averne ridotto gli utili al lumicino - con una liquidazione da trentotto milioni di euro, un futuro da disoccupato non può fare paura più di tanto. È un bene, perché in questi giorni Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo, è alle prese con una singolare convergenza di guai che potrebbe mettere a rischio la sua permanenza alla testa della ex Finmeccanica, azienda strategica di Stato e da sempre strettamente intrecciata alle politiche di sicurezza del paese, tanto da essere stata presieduta negli ultimi due mandati da altrettanti ex capi dei servizi segreti (prima Gianni De Gennaro, oggi Luciano Carta).
L'incerta figura di Profumo ieri davanti alla Commissione Difesa del Senato, che lo aveva convocato per farsi raccontare i motivi dell'inspiegabile incarico di brokeraggio di armi affidato a Massimo D'Alema, è solo la parte affiorata del momento difficile attraversata da questo supermanager divenuto boiardo di Stato. Che si trova stretto in una morsa in cui l'inchiesta interna di Leonardo alla caccia delle sponde di D'Alema all'interno dell'azienda rischia di concludersi in contemporanea (o quasi) con l'altra gigantesca rogna che coinvolge Profumo, ovvero la nuova indagine condotta contro di lui dalla Procura di Milano per la manomissione dei bilanci del Monte dei Paschi di Siena, il disastrato colosso bancario che Matteo Renzi aveva inviato il fidato banchiere milanese a risollevare. Resurrezione che non avvenne, e anzi i buchi nei conti di Mps si allargarono ancora di più.
Quando a ottobre 2020 Profumo venne condannato a sei anni di carcere per aggiotaggio e falso in bilancio, a sorprendere fu soprattutto la genesi - assai singolare, in effetti - della condanna: con la Procura ostinatamente convinta dell'innocenza del banchiere, al punto di chiederne ripetutamente l'archiviazione e l'assoluzione, e smentita da imputazioni coatte, rinvii a giudizio e infine dalla pesante condanna. Meno stupore sollevò il fatto che il governo lasciasse Profumo al suo posto ai vertici di Leonardo nonostante la condanna, a differenza del suo predecessore Mauro Moretti costretto a dimettersi dopo la condanna in primo grado per il disastro di Viareggio. Ma quella condanna aleggia da allora sulla testa di Profumo, in attesa del processo d'appello che dovrebbe essere in arrivo.
Il problema è che nel frattempo rischia di arrivare al dunque anche l'inchiesta bis, quella per i falsi che Profumo e il suo amministratore delegato Fabrizio Viola avrebbero commesso in Mps non subito dopo il loro arrivo, nel 2012, quando distinguere le loro colpe da quelle dei predecessori poteva essere forse arduo, ma negli anni successivi, quando erano saldamente in sella e padroni dei conti. E avrebbero, secondo la nuova inchiesta della Procura milanese (anch'essa dalla genesi inconsueta) falsificato le relazioni trimestrali fino all'agosto del 2015, occultando enormi sofferenze della banca: sofferenze secondo l'ispezione della Banca Centrale europea mettevano a rischio la sopravvivenza stessa della banca più antica del mondo.
Nei prossimi giorni Stefania Chiaruttini, il nuovo consulente della Procura di Milano, depositerà la nuova perizia sulle cento posizioni debitorie su cui Profumo e Viola avevano accantonato somme ben lontane dai rischi evidenziati dalla Bce. Se confermerà i sospetti dei pm Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri sul divario inspiegabile tra i conti di Profumo e quelli reali, per l'ex banchiere «rosso» la richiesta di rinvio a giudizio si annuncia inevitabile.
L'interrogativo è se il governo continuerà a pensare che una condanna, una richiesta di rinvio a giudizio e la strana storia degli aerei da guerra di D'Alema non siano di ostacolo alla permanenza di Alessandro Profumo alla testa di una azienda strategica del sistema-paese.La notizia buona per Profumo è che comunque tra un anno avrebbe finito l'incarico.
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