Sottomettere il nemico senza combattere è il culmine delle capacità militari. Lo diceva Sun Tzu, generale (e filosofo) cinese, autore dell'«Arte della guerra». A Pechino non l'hanno dimenticato, a Mosca l'hanno imparato come si deve. Anziché guerra ibrida i generali russi preferiscono parlare di «conflitti non lineari» e Mark Galeotti, studioso anglo-italiano di strategia, ha spiegato molto semplicemente il concetto: le tecnologie e le società moderne fanno sì che per avere maggiori chance di successo una guerra combattuta oggi debba essere preceduta, accompagnata e perfino, in qualche caso sostituita, «da una fase di destabilizzazione politica».
Sul tema l'Europa di questi giorni sembra destinata a fornire assist preziosi ai suoi avversari. E l'esultanza quasi calcistica con cui i vertici del regime putiniano hanno seguito la caduta di Boris Johnson dimostra quanto siano attenti alla dimensione non militare del conflitto in corso.
L'addio del più appassionato sostenitore di Volodymyr Zelensky non può che rinfocolare le speranze russe. Fino a quella, estrema, di tornare ai bei tempi, in cui Londra, la Gran Bretagna e lo stesso partito Conservatore, sembravano anestetizzati dai soldi degli oligarchi, graditi ospiti di una capitale diventata Londongrad. Allo stesso modo e con appena meno soddisfazione gli strateghi del Cremlino hanno seguito l'impasse elettorale di François Macron, ora stretto tra una sinistra melenchoniana piena di anime belle del pacifismo e una destra dalle non lontane simpatie putiniane.
Ma c'è di peggio, visto che la Germania non ha ancora superato la paralisi strategica che è stata la sua unica costante degli ultimi mesi nel campo della politica internazionale.
Non è solo colpa dell'incolore Cancelliere Olaf Scholz, ma di un processo molto più profondo: l'hanno chiamato Schröderisierung, dal nome dell'ex cancelliere Gerhard Schröder, per anni primo lobbista di Putin nel Paese, per anni a libro paga dei colossi dell'energia di Mosca. Anche in questo caso per fattori culturali ed economici un intero establishment (con in testa quello del partito socialdemocratico) ha ballato alla musica scelta dal Cremlino.
Quanto all'Italia, il premier Draghi è in questo momento alle prese con le «molestie» della pattuglia dei reduci grillini e per capire quali siano gli spiriti originari del Movimento sulla Russia basta leggere lo sbalorditivo reportage da Mosca del non più grillino Alessandro Di Battista.
La conquista, il disorientamento delle classi dirigenti dell'avversario è elemento fondamentale della guerra ibrida, e se di guerra ibrida si è trattato verrebbe da dire che il Cremlino l'ha già vinta. Così probabilmente la pensa lo stesso Putin: in una intervista di due o tre anni fa, poi diventata famosa, al Financial Times, spiegò che ormai il liberalismo aveva perso e non era più adeguato ai tempi. Molto meglio le autocrazie, era il sottotesto implicito.
E dall'altra autocrazia globale viene la minaccia appena denunciata, in un inedito appello comune, dal direttore dell'Fbi Chrisopher Wray e da quello del MI5 (il controspionaggio britannico) Ken McCallum. Riuniti a Londra hanno lanciato l'allarme. La Russia è il pericolo immediato ma in termini di guerra ibrida il pericolo più grave che va profilandosi è la Cina. Come Mosca ha già tentato di fare vuole influenzare la politica dei Paesi occidentali, conquistando in un colpo solo, le loro economie e le loro tecnologie.
Non solo. Xi Jin Ping e i suoi hanno giù imparato dalla lezione della guerra ucraina. Tra le priorità strategiche della loro politica la sottrazione di brevetti industriali e, soprattutto, l'attuazione di misure per proteggere l'economia da eventuali future sanzioni occidentali.
In prospettiva la dirigenza cinese predispone le condizioni più favorevoli per affrontare un conflitto legato a una possibile invasione di Taiwan. Anche per questo le conseguenze del conflitto che si combatte oggi in Europa sono destinate a diventare davvero globali.
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