Chi vuole festeggiare Israele in questo compleanno, deve smetterla di abbeverarsi agli stereotipi dell'ordine mondiale ancora radicato nella Guerra fredda; di immaginare il bene e del male, il giusto e l'ingiusto, imbevendosi dei sensi colpa del colonialismo europeo, dell'orrore per la guerra mondiale. Il popolo ebraico non ha niente a che fare con queste colpe. Mai è stato colonialista, mai ha condotto guerre di conquista. È stato solo aggredito, soggiogato, massacrato fino all'avvento dello Stato di Israele. Poi, si è difeso vittoriosamente perché la sua determinazione a vivere era definitiva ed eroica. Quello che in realtà non gli si può perdonare è che si sia svegliato, abbia cominciato a camminare e abbia preso la direzione della sua casa, Israele, Gerusalemme, senza chiedere il permesso a nessuno.
Si chiama «autodeterminazione», è permessa a tutti fuorché al popolo ebraico. Mentre scriviamo Israele è probabilmente di fronte al peggiore fra i tanti pericoli di distruzione cui ha dovuto, dalla nascita, far fronte: quello della presenza dell'Iran armato in Siria, sul suo confine, fiancheggiato dalla Russia e servito nei suoi scopi di distruzione dagli Hezbollah, armati con centinaia di migliaia di missili. I palestinesi indeboliti dai loro molteplici rifiuti a trattare una pace che rispettasse il diritto di Israele a esistere, sono ormai un rischio minore, anche se l'uso continuo e crudele del terrorismo li porta ogni giorno alle cronache.
L'odio teologico degli ayatollah invece cuoce nell'ombra, prepara missili balistici, non abbandona l'ambizione atomica e ormai incredibile a dirsi, ha le sue forze militari di stanza fino sul bordo del Golan al Nord di Israele. Per gli ayatollah Israele deve essere distrutta fino nella sua «radice ammarcita» come dicono, e l'eco di questo odio si ripercuote in tutto il mondo musulmano, fino in Europa, e un nuovo antisemitismo genocida minaccia il fiorente, avanzato Stato degli ebrei.
Ma non è dei pericoli strategici né dell'antisemitismo europeo, in incredibile crescita, che parleremo qui. Parleremo dell'impasto magico con cui in 70 anni questo piccolo Paese ce l'ha fatta a costruire una società democratica e insieme forte, tecnologicamente la seconda dopo gli Usa.
Le famiglie in gita spiegano ai bambini cos'è quel fiore e quell'albero, l'acqua è venerata quando, rara, scorre dalla terra con amore. Siamo tornati, sembrano dire a ogni passo, dopo secoli di esilio, dopo che siamo rimasti in balia dei più disparati poteri e delle più abbiette follie. Adesso siamo qui, noi coltiviamo, costruiamo, camminiamo dove vogliamo, segniamo il giardino di casa, inventiamo. Chi non capisce che questo è lo spirito di Israele, chi non sa che gli ebrei sono felici semplicemente perché hanno una terra di nuovo, da quando nel 70 dopo Cristo Gerusalemme fu incendiata e i romani chiamarono casa loro «Palestina», non capisce di cosa stiamo parlando.
Quando si arriva all'aeroporto Ben Gurion, subito salta agli occhi la seconda icona dell'indipendenza ebraica: Israele è il Paese dei bambini, e tanto più questo salta agli occhi degli europei, ormai quasi privi di figli. Il tasso di natalità qui supera i tre bimbi per famiglia: non ci si può credere, in Israele ci sono bambini ovunque, di tutti i colori e dimensioni, bambini che corrono, piangono, ridono, urlano, danno noia, cantano, sorridono adorabili... bambini che spingono passeggini con dentro altri bambini; bambini piccolissimi per mano alle mamme già con la pancia; bambini nel port-enfant attaccato sul petto del padre.
Non c'è centro acquisti dove orde di creature scalpitanti non si accalchino in speciali jamburee. Non si tratta di famiglie religiose: la laica Tel Aviv è in questo come la pia Gerusalemme: un giardino d'infanzia.
È questa la rivincita storica del popolo ebraico. Si chiamano David, Yehuda, Itay, Benjamin, Mordechai, Shira, Dvora, Yael, Hana, Aìvigail, Miriam. Come nella Bibbia. Così si chiamarono i miei nonni e i miei zii quando Hitler pensava di averci sterminati tutti.
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