Non avevamo mai pianto per degli imprenditori. L'abbiamo fatto tante troppe altre volte per i nostri soldati caduti in missioni di pace. Per gli studenti Valeria Solesin al Bataclan e Giulio Regeni in Egitto. Per Fausto Piano e Salvatore Failla, tecnici rapiti e schierati come scudi umani dai jihadisti in Libia. Per Nicola Calipari, l'agente dei servizi morto per liberare Giuliana Sgrena a Bagdad. Per Fabrizio Quattrocchi, la guardia di sicurezza che si strappò il cappuccio davanti ai boia iracheni per fare vedere «come muore un italiano». Lacrime di rabbia per giornalisti trucidati in Palestina, turisti a Sharm El Sheikh, cooperanti, preti e suore, medici come Rita Fossaceca in Kenya e il veterinario Cesare Tavella proprio a Dacca.
Non avevamo ancora patito la strage degli imprenditori. Abbiamo urlato un dolore impotente quando qualcuno ha voluto farla finita, travolto non più dai debiti ma dai crediti, dai soldi impossibili da incassare. Quella bengalese è invece la carneficina degli imprenditori positivi, quelli che ce la fanno, che continuano a produrre ed esportare, e tengono alto nel mondo il nome del «made in Italy». Il rischio è il loro mestiere, e non è un rischio calcolato perché non riguarda soltanto l'eventualità che un affare vada male. Molti di loro raccontano di «aver dato la vita» per l'azienda: ora purtroppo quell'espressione non è più un modo di dire.
Il rischio è il loro mestiere soprattutto in questi anni di crisi, quando un industriale ha come mercato il mondo e deve andare a cercare clienti in ogni angolo del pianeta. Deve scovarli e mantenerli, deve soddisfarli e tenerli stretti. Dev'essere sul posto per conoscere i fornitori e i clienti. Se produce, deve montare i macchinari, spiegarne l'uso, organizzare la manutenzione. Se vende deve trattare in prima persona, perché il patrimonio maggiore di ogni signore che accetta la sfida di tenere in piedi un'azienda è lo sguardo con cui incrocia gli interlocutori, il vigore della sua stretta di mano, la fermezza con cui dà e mantiene una parola. Il suo primo capitale è un capitale umano.
Quelli massacrati a Dacca erano imprenditori che operavano nel settore tessile. Piccole aziende, nomi conosciuti soltanto ai familiari e a qualche collega. Le piccole imprese sono il 99 per cento del numero totale di aziende in Italia e valgono il 60 per cento della ricchezza nazionale. Personaggi creativi e coraggiosi, che rischiando in proprio e del proprio fanno crescere i distretti produttivi, i territori, l'intero Paese. Che rincorrono i mercati non come s'insegue una romantica utopia sganciata dalla realtà, ma coscienti dell'onere di dare e mantenere lavoro, onorare gli impegni con i fornitori, offrire sempre il meglio ai propri clienti, produrre valore. E pagare le tasse, troppe.
Gente capace di innovare e di assumersi rischi nella stagione in cui lo sport nazionale è diventato il salto delle responsabilità. Persone che investono su di sé e sui propri collaboratori. E preferiscono sobbarcarsi la fatica di girare il mondo piuttosto che cedere alle sirene della finanza. Nel loro campionario, Borsa e stock option pesano molto meno rispetto al primato del lavoro, alla qualità dei prodotti, al reinvestimento delle risorse. E nel loro modo di pensare esiste non il capitalismo assistito o le nicchie protette, ma un'unica alternativa, secca quanto esaltante: se non ce la fai devi chiudere.
Questi imprenditori sono l'ossatura portante della nostra economia.
Ma l'essere piccoli li fa essere anche invisibili: dimenticati dai guru, maltrattati dalle banche, bersagliati dai sindacati, trascurati dalle televisioni che se ne occupano soltanto quando chiedono sacrosantamente di pagare meno tasse e avere meno burocrazia. E da ieri, anche perché alcuni di loro che lavoravano in Bangladesh sono stati sgozzati da fanatici sicari islamici.
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