La situazione in Myanmar è sempre più grave. Nonostante la condanna internazionale, polizia ed esercito continuano a sparare contro i manifestanti. Le stime ufficiali parlano di 250 morti. Ma secondo fonti raccolte dal Giornale, le vittime sarebbero molte di più. «In alcuni villaggi, dove ci sono state dimostrazioni spontanee e fuori dai riflettori mediatici, hanno massacrato intere famiglie», racconta un nostro contatto, che per ragioni di sicurezza vuole rimanere anonimo. «Altre persone sono sparite nel nulla», aggiunge al telefono. Chi è ancora vivo, potrebbe essere incarcerato nella prigione Insein a Yangon, che è stata usata in passato per i dissidenti politici ed è tristemente famosa per le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i detenuti e l'uso sistematico della tortura.
La brutale repressione, però, non riesce a fermare la rivolta contro la giunta militare tornata al potere con il golpe del 1° febbraio. Da qualche giorno, infatti, hanno appoggiato ufficialmente le proteste anche i religiosi buddisti, indignati dall'inaudita violenza usata contro la popolazione. La riunione dello State Sagha Maha Nayaka (Ma Ha Na), il consiglio di alto rango dei monaci in Myanmar, ha affermato che «sospenderà tutte le attività durante l'escalation della repressione contro i manifestanti che protestano pacificamente» e ha chiesto di «porre fine all'uso della forza, agli arresti e alle torture», auspicando il «ripristino della pace nel Paese». Questa dichiarazione segue quella dei monaci di Mandalay - la seconda città più grande del Myanmar - dove il 14 marzo, uomini armati delle forze di sicurezza hanno fatto irruzione nel monastero di Manihyadanarama Myattaung. In quella occasione, condannando quanto accaduto, i religiosi buddisti si sono detti pronti a «guidare manifestazioni a livello nazionale».
Nel 2007, durante la «Rivoluzione dello Zafferano», proprio i monaci erano nelle prime linee delle proteste non violente contro i generali. Quattordici anni fa dietro all'insurrezione c'era Nyi Nyi Lwin, più conosciuto con il nome di U Gambira, un ex bambino soldato ed ex monaco che ora vive in Australia. Nel liabro Naraka (Thorpe Bowker, 2020), che tradotto significa «inferno» o «luogo di tormento», racconta la sua straziante storia fatta di carcere, isolamenti e di continue torture perpetrate dalla polizia segreta. Per il ruolo centrale che ha ricoperto durante la rivolta, U Gambira è stato condannato a 68 anni di reclusione, ma è stato liberato nel 2012 grazie a un'amnistia concessa ai detenuti politici. Nel 2016 è stato nuovamente arrestato per «immigrazione illegale» e ha passato altri sei mesi in cella, prima di trasferirsi insieme alla moglie a Brisbane, grazie all'asilo politico concesso dall'Australia.
Intanto non si fermano gli arresti. Fino ad oggi, secondo il Political Prisoners Monitoring Group, sarebbero detenute quasi 2.400 persone. Molte sono state interrogate dall'Office of Chief of Military Security Affairs (Ocmsa) - chiamato anche Sa Ya Pa -, il ramo più temuto dell'intelligence militare del Paese.
L'Ocmsa ha svolto un ruolo di primo piano pure nella repressione del 2007 e anche dopo le vittorie elettorali del National League for Democracy - il partito della Suu Kyi - ha continuato a monitorare tutti gli attivisti politici. Tra gli ex comandanti del Sa Ya Pa troviamo Myint Swe, l'attuale presidente ad interim, e Mya Tun Oo, il ministro della Difesa in carica.
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