La strana campagna elettorale Snobbata la politica estera

Nessun leader ha spiegato i programmi su Ue, Libia, rapporti con gli Usa e Paesi emergenti

La strana campagna elettorale Snobbata la politica estera

Con l'eccezione del 1948, quando si trattava di scegliere tra Est e Ovest, e in parte del 1996, quando si dibatteva l'ingresso nell'euro, la politica estera è sempre stata la cenerentola delle campagne elettorali. Stavolta, tuttavia, si è esagerato. Nessun leader ha mai spiegato con chiarezza come un'Italia guidata da lui intende misurarsi con le grandi sfide della politica internazionale e cercherà di mantenere quello status di media potenza oggi un po' in pericolo. Per di più, nelle poche occasioni in cui si è toccato l'argomento, sono emerse posizioni contrastanti non solo tra i tre schieramenti in campo, ma anche all'interno di questi. L'impressione che, a seconda di chi vincerà, la politica estera italiana possa imboccare strade inedite è, insieme con bilancio e debito, all'origine delle preoccupazioni espresse più o meno esplicitamente dai nostri partner.

Il primo compito del nuovo governo, qualunque esso sia, dovrà essere perciò di consolidare la nostra presenza in Europa, dove negli ultimi anni, a causa sia di posizioni troppo ondivaghe, sia della precaria situazione debitoria, sia di una cronica incapacità a stringere alleanze durature (l'ultimo esempio è fornito dalla vicenda dell'Ema) abbiamo perso credibilità. La cosa non si può ottenere picchiando semplicemente i pugni sul tavolo, come soleva a un certo punto fare Renzi e altri pensano di poter fare oggi. Obbedire solo alle regole europee che rispondono ai nostri interessi è utopistico, e cambiarle è un processo lungo e laborioso che richiede l'assenso di tutti. Il compito ci sarà facilitato se procederemo rapidamente alle riforme che ci si aspettano da noi. Poi, bisognerà lavorare con pazienza sui dossier che ci stanno più a cuore, come la modifica delle regole di Dublino sull'immigrazione; una più equa ripartizione del suo onere finanziario (nel 2017 abbiamo ottenuto solo 240 milioni a fronte di una spesa intorno ai 4 miliardi); il Piano Marshall per l'Africa nera che dovrebbe indurre molti individui oggi intenzionati a tentare l'avventura europea a restare nei rispettivi Paesi; una attenuazione delle sanzioni alla Russia che hanno ridotto le nostre esportazioni verso quel Paese del 50%. Su quest'ultimo punto, per sui sarà necessario anche il consenso americano, potrà esserci utile la presidenza dell'Osce, l'organizzazione garante dei mai interamente applicati accordi di Minsk sulla pacificazione dell'Ucraina. Ma attenzione a non apparire come una specie di cavallo di Troia di Putin, una cosa che complicherebbe non poco i nostri rapporti con i Paesi dell'Est.

Altro obbiettivo primario per noi è la normalizzazione della Libia, cui già stiamo lavorando da anni ma dove continua a regnare il caos. L'obbiettivo è vitale per almeno tre ragioni: garantirci i rifornimenti di gas e petrolio, costruire un più solido argine al flusso dei migranti pur salvaguardando la protezione di chi ne ha diritto e liquidare gli ultimi resti dell'Isis che ancora si annidano qua e là e che potrebbero mettere il nostro Paese nel mirino. La riduzione delle partenze dei barconi negli ultimi mesi non ci deve illudere, perché gli accordi conclusi in Libia saranno sempre precari finché esisteranno due governi l'uno contro l'altro armati e innumerevoli milizie pronte a cambiare fronte. Purtroppo, invece di avviarsi a una soluzione, di recente la situazione si è ulteriormente complicata a causa della presenza di troppi attori con interessi diversi o addirittura opposti: Italia, Francia, Gran Bretagna, Turchia, Russia, Egitto e naturalmente Stati Uniti, anche se in misura sempre minore.

Con questo arriviamo a un altro passaggio complicato, i rapporti con un'America che, sotto Trump, spesso prende posizioni e iniziative molto innovative rispetto al passato. Fino adesso, sull'asse Washington-Roma c'è stato assai poco movimento: l'atteggiamento del nuovo presidente verso l'Italia sembra essere di un benevolo distacco, e il nostro governo di sinistra se ne è stato sulle sue. Sulla carta c'è solo la perentoria richiesta americana, peraltro rivolta a tutti i membri della Nato, di portare il bilancio della Difesa al 2%, operazione difficilmente realizzabile con questi chiari di luna. Comunque, se intendiamo mantenere gli Usa e la stessa Alleanza atlantica come insostituibili punti di riferimento, sarà necessario rilanciare i rapporti, magari appoggiandoci anche alla potente comunità italo-americana schierata in maggioranza con la nuova amministrazione.

Ultimo imperativo, necessario a tenere il passo con una globalizzazione che, se anche non piace a tutti, è qui per restare: una maggiore presenza nei grandi Paesi emergenti, dalla Cina all'India al Brasile, e anche in quelli minori, a costo di ampliare un corpo

diplomatico oggi ridotto a metà di quelli di Francia, Gran Bretagna e Germania. Se non lo faremo, il «made in Italy» necessario alla nostra sopravvivenza troverà sempre meno sbocchi e avremo fatto un altro passo verso la decadenza.

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