«Il fatto non sussiste». Non ci fu una tangente, non ci furono né corruttori né corrotti. Nel 2010, quando Eni si alleò con Shell per ottenere i diritti di sfruttamento di Opl 245, il giacimento di petrolio al largo della Nigeria, non fece altro che il suo lavoro: garantì il fabbisogno energetico italiano. Il processo che la Procura di Milano aveva imbastito e nutrito contro l'ente di Stato e i suoi manager si sgonfia nei quarantasei secondi che ieri bastano al giudice Marco Tremolada per assolvere l'Eni, e con lei i suo uomini-guida, Paolo Scaroni e Claudio Descalzi. Per loro, accusati di corruzione internazionale, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva chiesto una condanna esemplare: otto anni di carcere a testa. Invece escono assolti con formula piena. «A Claudio Descalzi è stata restituita la sua reputazione professionale e a Eni di grande azienda di cui l'Italia deve essere orgogliosa», dice quasi commossa Paola Severino, ex ministro, legale dell'amministratore delegato del cane a sei zampe.
Insieme ai top manager italiani e agli intermediari che per la Procura avrebbero gestito i rapporti, tra i quali Luigi Bisignani, vengono assolti i nigeriani finiti anch'essi sul banco degli imputati, tra cui l'ex ministro del petrolio Dan Etete. Il miliardo e trecento milioni di dollari che nel 2011 Eni e Shell versarono sul conto del governo nigeriano per ottenere l'appalto non erano una tangente.
Come si sia potuta considerare una tangente una somma finita su un conto governativo ufficiale è uno dei punti interrogativi che fin dall'inizio è gravato sull'inchiesta della Procura milanese. A sostegno della tesi d'accusa c'erano le dichiarazioni di Vincenzo Armanna, uomo Eni a sud del Sahara, secondo cui sia Scaroni che Descalzi erano consapevoli che il malloppo sarebbe stato spartito poi tra i politici nigeriani, compreso l'allora presidente Goodluck Jonathan e il ministro della giustizia Bajo Ojo. A Scaroni, in particolare, l'accusa contestava di avere incontrato personalmente Jonathan nell'agosto 2010, nel pieno delle trattative per il giacimento, sia nella fase finale, a febbraio 2011, recandosi appositamente in Nigeria. Ma la difesa di Eni ha avuto vita facile nel sostenere che per il capo di una compagnia petrolifera incontrare il capo di un paese che produce petrolio è piuttosto normale.
«È un risultato di grande civiltà giuridica», dice Nerio Diodà, il legale che rappresentava in aula Eni «e i suoi trentatremila dipendenti e le sue centinaia di aziende». Invece il procuratore De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro lasciano l'aula scuri in volto e senza commentare. Per gli inquirenti milanesi è una sconfitta cocente, anche perché bissa il risultato identico raggiunto con il processo a Eni per le tangenti che avrebbe versato in Algeria: anche lì tutti assolti con formula piena, compreso Scaroni, verdetto confermato in appello e in Cassazione. Ieri la sentenza della settima sezione del tribunale milanese smentisce nuovamente l'impianto accusatorio della Procura. Sparisce la tangente, spariscono le accuse lanciate informalmente in corso di processo a Paolo Scaroni, cui secondo la versione ricevuta da un confidente sarebbe ritornata in contanti una fetta della torta, cinquanta milioni cui i pm hanno dato la caccia in tutto il mondo senza trovarne traccia.
L'unico che di sicuro ha preso dei quattrini è stato Armanna, il manager Eni sul posto, che si fa girare dai nigeriani oltre un milione di euro. Quando lo hanno scoperto, si è pentito e ha iniziato a collaborare con la Procura. Ieri viene assolto anche lui.
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