Giunto a fine marzo al termine del suo quarto anno di vita, il reddito di cittadinanza ha da sempre posto numerosi interrogativi sia sulla sua sostenibilità per le finanze pubbliche sia sulla sua reale efficacia come strumento per le politiche attive per il lavoro. Se la seconda questione può considerarsi chiusa grazie a una recente ricerca dell'Inapp (solo una quota di percettori compresa tra il 3 e l'8% ha trovato lavoro o partecipato a venti formativi), la prima resta ancora aperta.
Rispondere senza cadere nella demagogia è esercizio complesso ma c'è una strada per affrontare l'argomento. In primo luogo, bisogna chiedersi quanto sia costato il sussidio. Considerato che a fine 2022 la spesa veleggiava sui 28 miliardi di euro, nel primo trimestre di quest'anno è stata certamente superata la soglia dei 30 miliardi di euro. Ora sarebbe semplicistico rispondere che l'ammontare è pressoché equivalente a una manovra di bilancio, ma di sicuro per questa cifra nel corso degli anni si poteva immaginare un impiego diverso che si può cercare di delineare. A partire proprio dalla riforma fiscale cui anche l'attuale governo sta lavorando. Se pensiamo al progetto che, sotto la supervisione del ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, sta seguendo il viceministro Maurizio Leo, troviamo che la riduzione delle aliquote Irpef da 4 a 3 costerebbe circa 6 miliardi all'anno. Non è, pertanto, peregrino affermare che, ove diversamente distribuito, il reddito di cittadinanza avrebbe potuto contribuire (ovviamente anche a fronte di una rimodulazione dei bonus fiscali) al conseguimento di questo obiettivo che, in buona sostanza, era caro anche al governo Draghi.
Se, invece, si volesse puntare l'obiettivo all'attuazione di politiche più centrate sul lavoro, non si potrebbe fare a meno di notare come il taglio del cuneo fiscale e contributivo sul lavoro avrebbe potuto essere attuato pescando proprio nelle risorse dedicate al reddito grillino. Forse non tutti i 30 miliardi ma con una spesa degli stessi 6 miliardi di euro all'anno si sarebbero potuti tagliare due punti percentuali sul costo del lavoro. Il che avrebbe significato buste paga più pesanti per chi lavora e qualche miliardo di tasse in meno per le imprese, dunque possibilità di creare occupazione vera e non finta come quella degli ex navigator. In fondo, l'idea del governo Meloni è proprio questa se le nuove misure (Garanzia per l'inclusione e Garanzia per l'attivazione) dovrebbero costare circa 5,3 miliardi all'anno. Significa risparmiare oltre 3 miliardi all'anno che, molto probabilmente, saranno destinati al potenziamento già annunciato del taglio del cuneo.
L'attuazione sbagliata del reddito di cittadinanza risiede in questo: oltre a sostenere chi non è in grado di lavorare a causa di una situazione familiare o personale difficile (caregiving, dipendenze, ecc.), si è implicitamente lasciato pensare che ci si potesse adagiare sul divano. Ecco perché, parte di quei soldi avrebbero potuto essere indirizzati all'attuazione di percorsi formativi veramente professionalizzanti oltre ai soliti corsi per ristoratori ed estetisti (figure comunque sempre ricercate).
Ultimo ma non meno importante, viste le recenti discussioni, è il capitolo infrastrutture. Quattro anni di reddito di cittadinanza sono costati come due Ponti sullo Stretto o 3,3 tunnel Tav in Val di Susa o 7,5 Varianti di Valico.
A parte il capitolo di spesa differente, è chiaro che, sprecando meno in un welfare che non funziona, uno Stato potrebbe non sentirsi con l'acqua alla gola quando si tratta di investire sulle infrastrutture. Che fanno crescere il Pil e creano posti di lavoro. Veri.
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