Per Tadini un mese "senza freni". "Un cavo rotto? Ce ne vuole..."

Già il 26 aprile aveva ordinato ai dipendenti di far viaggiare il mezzo con i forchettoni. Il giudice: "I colleghi avrebbero potuto rifiutarsi". E ora chi lo assecondò potrebbe finire nei guai

Per Tadini un mese "senza freni". "Un cavo rotto? Ce ne vuole..."

Già il 26 aprile Gabriele Tadini aveva ordinato di far viaggiare la funivia con i ceppi che disattivavano l'impianto frenante, dopo che neanche l'intervento di una ditta specializzata aveva risolto il problema. Le testimonianze dei dipendenti della funivia convergono tutte sul caposervizio, da sabato ai domiciliari. Ha ammesso di aver bloccato i freni della cabina, ma secondo il gip non sarebbe attendibile quando chiama in causa Nerini e Perocchio. Tra l'altro lo ha fatto quando era ancora ascoltato come testimone - un altro passaggio criticato dal gip - non ancora come indagato mosso dall'interesse di attenuare le sue responsabilità.

Sapendo che la sua «condotta scellerata, della quale aveva piena consapevolezza, posta in essere in totale spregio della vita umana e con una leggerezza sconcertante» aveva provocato la morte di 14 persone, si legge nell'ordinanza, «perché non condividere questo immane peso, anche economico, con le uniche due persone che avrebbero avuto la possibilità di sostenere un risarcimento danni?». Tadini in più occasioni aveva fatto viaggiare la funivia con il forchettone, «anche se non erano garantite le condizioni di sicurezza necessarie», confidando che mai la fune avrebbe ceduto. «Prima che si rompa una traente o una testa fusa ce ne vuole», aveva detto ad un dipendente che non era convinto della possibilità di far viaggiare la cabina con le persone a bordo a ceppo inserito. Una frase che ora pesa come un macigno, anche alla luce delle indagini in corso per accertare un eventuale nesso tra il cedimento della fune e la prassi dei forchettoni. Durante l'interrogatorio Tadini ha ribadito che «disattivare il sistema di sicurezza era diventata una prassi», sarebbe stato fatto una decina di volte solo dall'8 maggio, Perocchi e Nerini sapevano e non hanno fatto nulla per impedirlo: «Mi dicevano arrangiati». Anche gli altri dipendenti erano consapevoli di viaggiare senza sistemi di sicurezza. «Lo avevo ordinato io», insiste il caposervizio. Una consapevolezza che viene stigmatizzata nell'ordinanza: «Forse potevano rifiutare di assecondare Tadini», scrive il giudice aprendo la strada alla ricerca di ulteriori responsabilità. In particolare, parlando di un manovratore in servizio proprio quella domenica il giudice osserva che «mai avrebbe dovuto essere sentito come persona informata sui fatti, dopo le prime dichiarazioni di Tadini». Si tratta dell'unico dipendente delle Ferrovie del Mottarone che il gip ritiene «utile a corroborare la chiamata in correità» di Nerini e Perocchio («Ho udito più volte Tadini - ha detto nell'interrogatorio - discutere con loro perché erano contrari alla chiusura dell'impianto, nonostante la volontà del caposervizio fosse di chiudere»), se non fosse che essendo al lavoro quel giorno «ben sapeva del rischio di essere incriminato per aver concorso a causare con la propria condotta, che avrebbe benissimo potuto rifiutare, la morte di 14 turisti». La lista degli indagati rischia presto di allargarsi, dunque. Tadini avrebbe potuto opporsi di far camminare la funivia con il forchettone.

Lui sostiene di essere stato in qualche modo costretto a trovare uno stratagemma per far funzionare l'impianto per non perdere gli incassi proprio ora che la stagione stava per ripartire e che non aveva i poteri di fermarlo: il gip ritiene invece che abbia detto il falso perché il comma 4 del decreto 8 febbraio 2011 prevede che «il direttore dell'esercizio è tenuto a disporre tempestivamente la sospensione del servizio quando, per motivi di urgenza, non vi abbia già provveduto il capo servizio». Una normativa che Tadini non poteva ignorare lavorando nel settore da 36 anni.

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