Con il passare dei giorni appare sempre più chiaro che sarà la Cina - d'intesa con l'Iran e il Pakistan, senza dimenticare il ruolo della Russia - a colmare il vuoto che gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali hanno lasciato in Afghanistan. Un vero patto del diavolo tra Pechino e l'islam fondamentalista, con i talebani che ringraziano i cinesi per un sostegno del quale hanno estrema necessità. Lo ha fatto ieri Suhail Shaheen, uno dei portavoce degli estremisti che hanno preso il controllo a Kabul: la Cina, ha detto, potrà avere «un ruolo molto importante nel futuro dell'Afghanistan» e questo grazie alla potenza della sua economia. Shaheen ha citato «la ricostruzione» del suo Paese, con riferimento agli interventi infrastrutturali (autostrade, ferrovie, rete elettrica) che Pechino potrà assicurare, ma non si è limitato a questi aspetti materiali. Ha infatti parlato anche di «riabilitazione», e questo è molto significativo: qui si allude a un sostegno politico che per i talebani è forse ancor più importante.
Shaheen, del resto, non è nuovo a queste uscite assai gradite a Pechino. Già all'inizio del mese scorso, quando la conquista di Kabul pareva alla distratta intelligence americana un'ipotesi comunque lontana nel tempo, il portavoce talebano aveva definito la Cina «un'amica benvenuta» e auspicato che venissero il prima possibile intavolati con «quel grande Paese» negoziati finalizzati alla famosa ricostruzione dell'Afghanistan. Aperture, non c'è bisogno di dirlo, graditissime da Xi Jinping, che il 28 luglio aveva fatto ricevere nella capitale cinese dal suo ministro degli Esteri Wang Yi una delegazione dei fondamentalisti islamici afghani guidata da quel mullah Abdul Ghani Baradar che ora si accinge ad assumere la guida del nuovo governo di Kabul.
Il «patto del diavolo» è dunque chiaramente, a giudizio di entrambe le parti, vantaggioso nonostante i rischi. Che esistono sia per i talebani che per i comunisti cinesi, anche se i secondi paiono assai meglio attrezzati per comprenderli e gestirli. I fanatici del Corano sembrano sottovalutare l'abilità della Cina di prendere gradualmente il controllo della macchina statale afghana attraverso i meccanismi subdoli della Via della Seta, mentre a Pechino sanno bene che i talebani sono da sempre abituati a firmare accordi che non rispetteranno, e che una volta incassati miliardi con la vendita del litio ai cinesi potrebbero sentirsi liberi di sostenere con le armi i «fratelli musulmani» nel Xinjiang.
A quel punto i cinesi potrebbero amaramente pentirsi di aver manifestato - con la loro tipica ipocrisia espressa nella «lingua di legno» marxista-leninista - il loro rispetto per «la volontà del popolo afgano», ovvero per la presa del potere dei talebani a Kabul. Ma qui stiamo immaginando il futuro lontano, mentre ciò che conta è il presente. Un presente in cui i mullah afghani ringraziano la Cina per un sostegno prezioso nel momento in cui il Fondo monetario internazionale e i Paesi occidentali li incalzano tagliando «ingiustamente» gli aiuti in mancanza di garanzie sul rispetto dei diritti umani.
E anche la Russia, in attesa di vedere se le pressioni europee sortiranno qualche effetto, è schierata nello stesso campo: ieri Putin, ricevendo la Cancelliera tedesca Angela Merkel, le ha detto che la lezione da trarre dal disastro di Kabul è che esportare la democrazia è sbagliato perché bisogna rispettare le tradizioni dei popoli: quelle che i talebani impongono con la frusta.
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