Tolse il velo all'ipocrisia diventando icona pop

Era "apolitica" perciò fece davvero la rivoluzione dei costumi. Con canzoni semplici. E testi forti

Tolse il velo all'ipocrisia diventando icona pop

A raccontarla inizia tu. Perché Raffaella Carrà era così popolare da essere diversa per ciascuno. Ci sono le popstar uguali per tutti e le popstar uniche per tutti, come lei che, per quella strana e impalpabile magia del talento, riusciva ad arrivare con la stessa intensità a pubblici eterogenei, distanti, spesso inconciliabili tra loro nonostante ascoltassero la stessa canzone. E mica ha impiegato tanto a diventare così traversale, Raffa ha iniziato a essere Raffa già nel 1970 con la innocua Ma che musica maestro, la sigla di Canzonissima (presentata con Corrado) che però lei cantava con l'ombelico bene in vista. Scandalo! Ai piani alti della Rai, che pochi anni prima aveva fasciato di nero le gambe delle Kessler, vennero i brividi e pure il Vaticano, beh, non si mostrò entusiasta. In una sola scena, la biondina minuta che aveva recitato con Frank Sinatra tolse un velo di ipocrisia e accese le luci sul corpo della donna, spogliato ma casto, nudo ma non malizioso. Lì, al Teatro delle Vittorie di Roma, Raffaella Carrà inizia a diventare una diva e a spostare in avanti il confine di quello che oggi sarebbe il politicamente corretto. Ha fatto più lei di tante altre pseudo icone. E non c'è riuscita da barricadera, ma con il pudore e la spontaneità che sono sempre il vero, unico grimaldello per aprire le porte bloccate dai pregiudizi.

Poi il Tuca Tuca, l'anno dopo. Brano scritto da Boncompagni/Pisano, non era niente di che, non fosse stato per la gigantesca carica allusiva e, soprattutto, per il balletto coreografato da Don Lurio e interpretato, sempre a Canzonissima, da lei ed Enzo Paolo Turchi. Il pubblico impazzì. E anche la Rai. Che impose di ballare di «tre quarti», praticamente di profilo, per non surriscaldare ulteriormente i telespettatori. Però, quando lei lo interpretò con Alberto Sordi, non ci fu censura che tenesse: da allora il Tuca Tuca è un classico e, insomma, se Madonna (dicesi Madonna) nel tour mondiale del 2012 ripropose una coreografia simile, si può immaginare l'effetto del Tuca Tuca sulla casalinga di Voghera quarant'anni prima. A Viale Mazzini faceva comodo la Carrà di Maga maghella, un superbo inno per bambini, mica quella che con le parole più semplici e i gesti più innocui sapeva spogliare i luoghi comuni, le ipocrisie, le convenzioni secolari. Dopotutto la sua forza inattaccabile era proprio questa: essere apolitica, apartitica, aideologica. Non faceva battaglie. Non scendeva in campo, al limite saliva sul palco. Era semplicemente Raffaella Maria Roberta Pelloni che sapeva ballare, sapeva cantare, recitare e presentare con naturalezza, pure con gaffe e incertezze sia chiaro, e pure con quel tocco di kitsch che il suo sorriso sapeva far accettare. «Ho aiutato le donne a credere in se stesse» ha detto in una delle sue ultime interviste. E lo ha fatto con spontaneità. Non era una vamp. Era una artista, peraltro all'inizio musicalmente sottovalutata. D'altronde bisogna contestualizzare: gli anni del Tuca Tuca erano quelli della canzone d'impegno, del rock trasgressivo, del «segue dibattito» che mal si conciliavano con una bionda soubrette televisiva.

Per questo la portata più trasversale dei suoi brani, ossia l'impatto culturale che hanno avuto, si è capita con il tempo. Vuoi perché la struttura musicale era tendenzialmente semplice, oggi si direbbe da tormentone. E vuoi perché l'intellighenzia ha impiegato due decenni a sdoganarla, seguendo il solito lentissimo rituale riservato ai fenomeni popolari. Se un brano come A far l'amore comincia tu (1977, remixata da Bob Sinclar nel 2011) fosse stato cantato da una cantantessa impegnata sarebbe stato subito capito. Invece erano della Raffa, mica di Joan Baez. Errore. «Le sue paure di quel momento le fai scoppiare soltanto tu» erano un vademecum rivoluzionario per la fine degli anni Settanta, un manuale d'istruzioni per una generazione (non solo femminile) che poi è cresciuta con lei. Anche il Lato A di quel 45 giri, Forte Forte Forte (testo di Cristiano Malgioglio) raccontava del legame desiderato/subito di una donna in un'epoca nella quale pochi ne parlavano a un pubblico così vasto. Con il pop, la Regina Raffaella è arrivata ben prima di tanti altri nel territorio sacro e intangibile dei diritti civili, dell'uguaglianza sessuale, del rispetto dell'identità. Non a caso si è trasformata, quasi per processo naturale e generazionale, in una icona gay riconosciuta in mezzo mondo da chiunque, nelle favelas brasiliane e nei club esclusivi di Londra o New York.

Basti vedere l'omaggio sterminato che le hanno riservato artisti di ogni epoca da Elio e Le Storie Tese di Presidance (1999) al simbolico E Raffaella è mia di Tiziano Ferro del 2007, che è la canzone perfetta anche oggi, anche nel momento del dolore e del riconoscimento di un'artista che se ne è andata in silenzio come una regina dopo esser diventata un simbolo come un'icona. La più pop che abbiamo avuto. E, fino alla fine, anche una delle più spontanee, così spontanee da diventare rivoluzionarie.

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