Non è una novità che Vladimir Putin giudichi la caduta dell'Unione Sovietica una sciagura epocale: lo ha ripetuto infinite volte. Altrettanto chiaro è che ciò non significa che il presidente russo coltivi nostalgie comuniste: gli basta controllare il potere con gli ex del Kgb. I suoi rimpianti vanno al ruolo perduto di Mosca come superpotenza non solo planetaria, ma anche regionale. Perché tra l'Ottantanove in cui cadde il muro di Berlino e il dicembre '91 che vide l'ammainabandiera della falce e martello al Cremlino scomparvero sia l'impero europeo costruito da Stalin nel 1945 sia quello russo-sovietico che comprendeva in un'unica federazione (l'Urss) Ucraina, Bielorussia e un'altra dozzina di Repubbliche minori. Il loro repentino accesso all'indipendenza lasciò la pur gigantesca Russia sola e indebolita, e sconfitta nella guerra fredda.
La novità è che oggi Putin sta passando all'azione per inverare il suo sogno: vincere la Seconda guerra fredda (se andrà bene) e rifare grande, in tutti i sensi, la Russia.
Il presidente, trasformatosi sempre più apertamente negli ultimi anni in un autocrate militarista, punta a rimettere sotto il suo tallone le Repubbliche che componevano l'Urss. Il gioco, parzialmente compiuto con quella serie di Stati di terza fascia (Armenia, Tagikistan, Kirghizistan) le cui truppe stanno «normalizzando» insieme a quelle russe il Kazakistan, è già riuscito con la «sorella minore» Bielorussia: da quando il padre-padrone di Minsk Aleksandr Lukashenko si è dovuto rivolgere al «fratello maggiore» di Mosca per domare la rivolta popolare esplosa nell'agosto 2020 i suoi margini di autonomia si sono azzerati e manca solo un passo ufficiale alla fusione tante volte annunciata tra i due Paesi.
La stessa giustificazione usata per motivare l'assorbimento della Bielorussia il mantenimento di Stati cuscinetto tra la Russia e l'Europa per garantirsi da presunte minacce alla sicurezza nazionale viene spesa dal Cremlino per l'Ucraina. Ma qui la situazione è più complessa: Kiev è passata nel campo occidentale, e solo il prudente diniego americano ha finora impedito il suo ingresso nella Nato. Putin sta giocando, come si è visto nei due giorni di braccio di ferro diplomatico a Ginevra, una partita al rialzo: minaccia una nuova invasione dell'Ucraina (nel 2014 si è già mangiato la Crimea e un pezzo del Donbass) per ricattare gli occidentali. Dai quali pretende non solo di impegnarsi a non allargare la Nato ad altri Stati ex sovietici, ma anche di abbandonare al loro destino i Paesi dell'Est che ne sono già membri. Richieste inaccettabili, Putin lo sa bene: per questo preoccupa che minacci, in caso di mancato loro accoglimento, di usare la forza in Ucraina.
Inquieta anche che il Cremlino torni ad usare un linguaggio irrispettoso della libertà di scelta dei popoli, come quando il ministro degli Esteri Lavrov ha detto che Polonia e Cechia «sono finiti nella Nato dopo esser rimaste senza un padrone». O come quando Putin ripete che «non saranno tollerate rivoluzioni colorate nei nostri Stati», cioè nell'ex Urss.
Ma c'è di peggio: l'alleanza ferrea con la dittatura cinese, che plaude alla «stabilizzazione» in corso in Kazakistan e auspica che le truppe russe vi rimangano. Il mese prossimo Putin e Xi Jinping s'incontreranno e si teme che formalizzino un nuovo stadio di un patto che ricorda sinistramente quello tra altri due famigerati dittatori del secolo scorso.
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