La pandemia è una frontiera temporale. Adesso che bene o male ne siamo usciti ci tocca immaginare il futuro dell'Europa. Non è scritto. Non è un canovaccio chiuso, senza incroci, senza punti di svolta, senza domande e dubbi. L'idea di riportare tutto a «come era prima» è il segno della paura, di chi si rifugia nelle formule conosciute, che negli anni sono diventate una sorta di ideologia, come se il rigore economico fosse un precetto sacro, una via crucis per scontare i propri peccati. L'austerità è invece una scelta, una possibilità, saggia quando serve, quando è utile, quando garantisce un equilibrio, ma se ti ritrovi in una nuova stagione non è da irresponsabili interrogarsi su un cambio di passo. È quello su cui bisogna ragionare adesso, senza paraocchi.
L'Europa finora è stata molto attenta ai conti e ha mortificato lo sviluppo. Non è una bestemmia dire che si può pensare a un nuovo equilibrio. L'attuale patto di stabilità non vale per sempre. Non è eterno e neppure universale. Non è una legge di natura e neppure una teoria scientifica. È una accordo che ha segnato un pezzo di storia dell'Unione europea. Ora, anche psicologicamente, è solo il totem che rassicura la Germania. Qualcosa forse sta cambiando. Non è un caso che ieri Giorgia Meloni abbia parlato di cambio di paradigma. «Il tempo della austerità è finito». È una speranza e un progetto politico. Meloni ha il merito di averlo messo sul tavolo, ma non si muove da sola. C'è una riflessione che coinvolge vari governi europei. Il vertice dei ministri economici del 14 marzo ha chiarito che il problema del debito non si può risolvere soltanto con le misure di forte austerità inaugurate nel 2011-12. È passata troppa vita da allora. La domanda è chi ha pagato il rigore, su chi è pesato e chi ha garantito. Il freno allo sviluppo ha colpito in particolare le classi medio-basse, di salariati e commercio e partite Iva. Sono loro che ne sono uscite con le ossa rotte, scontando una caduta sociale e economica. Tutto questo ha generato frustrazione e rabbia. È da lì che in parte viene la stagione politica del populismo. È da lì che arriva la crisi della democrazia e la disillusione di chi ha finito per disertare le urne.
L'austerità ha invece garantito la finanza e non ha certo creato problemi alle élites economiche e sociali. Questa frattura è diventata culturale e di visioni del mondo. I partiti europei ora, passata la pandemia, non possono non dare una risposta.
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