È peggio trattare con Vladimir Putin o continuare a puntare su un alleato perdente? All'indomani della caduta di Lysyshansk e del vertice Nato in cui Joe Biden ribadiva di voler sostenere Kiev «fino a quando sarà necessario» per «evitare che gli ucraini siano sconfitti», i dubbi lacerano i governi dell'Alleanza Atlantica. Fatta eccezione per Londra - dove un Boris Johnson convinto di essere la reincarnazione di Winston Churchill rifiuta qualsiasi dietrofront - tutti da Washington fino a Berlino, Roma e Parigi si chiedono se sia sensato rimandare i negoziati con il Cremlino. E se sia utile attendere metà novembre quando il presidente indonesiano Joko Widodo tenterà di trasformare il G20 di Bali in un tavolo negoziale tra Nato e Russia.
Anche perché fino ad allora Mosca potrebbe essersi presa l'intero Donbass e aver iniziato la marcia su Odessa. Un'incognita pericolosissima per la Nato che a quel punto dovrebbe scegliere se intervenire, rischiando la guerra mondiale, o accettare un'Ucraina ridotta a nazione residuale priva di sbocchi al mare e costretta a contare sugli aiuti occidentali per sopravvivere. Un epilogo che equivarrebbe a una vittoria di Vladimir Putin. Ma partiamo dall'oggi. La caduta di Lysyshansk e del Lugansk mette fine alle illusioni del primo mese di guerra dimostrando che nel Donbass gli Ucraini non reggono il confronto con la superiorità numerica russa e con una artiglieria capace di seppellirli sotto una pioggia di oltre 60mila granate quotidiane. Ma il dubbio più grosso riguarda la possibilità di ribaltare le sorti della guerra grazie ai missili a lunga gittata Himars. L'efficacia di quei sistemi dipende dalla disponibilità di missili, dalla tenuta delle linee logistiche su cui muoverli e dalla capacità delle prime linee ucraine di contenere l'avanzata russa. Nel Lugansk gli ucraini - decimati dagli obici di Mosca e costretti a rimpiazzare migliaia di veterani caduti con riservisti poco addestrati e scarsamente motivati - non sono riusciti a difendere né le prime linee, né a garantire una logistica bersagliata dall'aviazione russa. E l'arrivo delle armi americane e la necessità di garantire sia il munizionamento occidentale che quello russo renderà ancora più complessi i rifornimenti.
Per non parlare della fragilità dei sofisticati sistemi d'arma occidentali che faranno i conti con una manutenzione affidata a personale inesperto e addestrato in tutta fretta. L'effetto delle nuove disfatte ucraine minaccia di acuirsi in autunno quando Stati Uniti ed Europa faranno i conti con le conseguenze di crisi energetica e dell'inflazione. Secondo le previsioni di Jp Morgan una decisione del Cremlino di bloccare le vendite di petrolio sui mercati occidentali farebbe schizzare il prezzo del greggio fino ai 380 dollari al barile con conseguente moltiplicazione dei costi energetici. A quel punto le divisioni sul fronte europeo della Nato diventerebbero praticamente inevitabili. Anche perché le opinioni pubbliche di paesi come Italia, Francia e Germania inizierebbero a chiedersi se vale la pena dissanguarsi per un'Ucraina condannata alla sconfitta. Divisioni che renderebbero assai incerta l'ipotesi di un intervento diretto per fermare l'avanzata russa su Odessa.
Proprio per questo molti, dalla Casa Bianca all'Eliseo fino alla Cancelleria di Berlino, si chiedono se non sia meglio trattare ora evitando concessioni che vadano al di là dei territori del Donbass e di quelli di Kherson indispensabile alla Russia per garantire i rifornimenti idrici della Crimea. E i primi ad averlo capito sono i russi.
«Prima o poi - diceva ieri il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov - il buon senso in Occidente prevarrà e i negoziati sull'Ucraina riprenderanno» sottolineando però che Occidente e Ucraina dovranno «comprendere le condizioni di Mosca». Come dire più aspettate e più dovrete accettare le nostre condizioni.
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