Questo è il giorno del non detto, dove si prende tempo, si compra, si intriga, si aspetta e si cerca una soluzione che solo i folli o i visionari riescono a intravedere. È il tardo pomeriggio degli ignavi, di chi tira a campare, degli smarriti e anche dei saggi e dei disincantati, di chi può dirti solo ciò che non siamo e ciò che non sappiamo. È l'orizzonte della scheda bianca, che vince su tutto e tutti per un attimo mette d'accordo, come una di quelle notti che non sembrano finire mai. Non è una novità. Ce ne sono state altre in passato di schede bianche, una mossa tattica per non svelare le intenzioni o per lasciare al buio il candidato da portare al Quirinale, ma questa volta sembra avere un sapore ammuffito, stantio, di roba andata a male, come l'odore di una resa, perché la politica si è talmente aggrovigliata nei suoi giochi di veti, dispetti e piccoli poteri dal non riuscire a guardare al di là di un metro, la distanza minima che di questi tempi ti illude di proteggerti dagli altri, da quello che c'è fuori. È la rinuncia ad andare oltre. È lo spazio bianco dove ognuno si sente rassicurato, se non dico non sbaglio, lasciando ai leader la quadriglia degli incontri e delle trattative. È il rifugio dei peones che a sera potranno certificare di aver fatto il proprio dovere, sussurrando al collega soddisfatto: domani ce lo diranno dove bisogna andare. Ecco la figura a cui aggrapparsi, una signorina senza volto e senza età che si presenta come l'unica donna al momento in corsa per il Quirinale. «Mi chiamo Bianca Scheda e vengo da lontano. Non troverete nessuna più facile da condividere. Ognuno in fondo può immaginarmi come vuole». Raccontano che nel 1992, quando poi fu eletto al sedicesimo scrutinio Oscar Luigi Scalfaro, il giornale radio Rai scovò vicino Modena proprio lei, Bianca Scheda, settantadue anni e una vita a non stupirsi di nulla, neppure dei capricci della politica: «Presidente, io? Ho sempre fatto la contadina, ma due o tre cosine avrei anch'io da dirle a quei signori lì». Ne avrebbe riso ancora di questa storia.
Non è mica detto, d'altronde, che tutti sappiano cosa sia una scheda bianca. La prudenza in certi casi non è mai troppa. Chiedetelo ai grillini, che sui dettagli non li spiazza nessuno. Quando ieri c'era da sottolineare le istruzioni su come comportarsi, la burocrazia parlamentare a Cinque stelle ha inviato un messaggio ai propri grandi elettori. Testuale. «Indicazioni di voto: scheda bianca (ovvero senza alcun nome scritto)». L'ultima parte, quella tra parentesi, sottolineata. Tanto è vero che per evitare equivoci, in serata, i caporioni hanno confessato di valutare un nome al posto del foglio immacolato. È solo per questo che alla fine Bianca Scheda ha perso parte dei consensi.
Qualcuno si era perfino illuso. La «scheda bianca» come un atto di ribellione, la rivolta anarchica dei grandi elettori, quasi che il Parlamento fosse il seggio quattordici della città immaginaria di José Saramago. Tutto accade come in Saggio sulla lucidità, quando il 75 per cento dei votanti, in un giorno di pioggia, sceglie di non indicare un nome. È il mal bianco. È quello che resta dopo la cecità. È la rivoluzione di chi non ha più parole, perché non ci crede più e si è stancato di ascoltarle. «Votare scheda bianca è un diritto irrinunciabile, nessuno ve lo negherà, ma proprio come proibiamo ai bambini di giocare col fuoco, così abbiamo avvisato i popoli che va contro la loro sicurezza cincischiare con la dinamite».
No, questa volta non è davvero così, non c'è traccia in questa storia di lucidità.
Come può il potere non votare il potere? È una scheda bianca che non ha nulla da dire. È solo soprassedere. Stare lì ancora un po', perché la paura più profonda è che qualcosa accada davvero. Basta un nome a scardinare tutto, buttato lì per scherzo, come una slavina. È ancora notte, presidente.
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