"Troppi dati ma nessuna conoscenza. I rischi di una medicina ipertecnologica"

Il docente dell'Insubria a Varese: "Prescritti spesso esami di secondo livello. Ma i dottori si prendano la responsabilità di essere chiari"

"Troppi dati ma nessuna conoscenza. I rischi di una medicina ipertecnologica"

Sempre più precisa nell'analizzare il dettaglio, la Medicina Specialistica si avvale di apparecchiature diagnostiche che sondano l'impensabile. Ci si ritrova con una mole di dati che porta al paradosso «troppa informazione equivale a nessuna conoscenza». Leonardo Campiotti, esperto in malattie oncoematologiche e Professore di Medicina Interna all'Università dell'Insubria di Varese, riflette sul ruolo del medico ai tempi della tecnica.

«Spesso ci ritroviamo con più informazioni di quelle che chiediamo. Oggi si prescrivono con facilità gli esami di secondo livello come le Tac. A un paziente fumatore con tosse persistente è consigliata la radiografia ai polmoni. Se quest'ultima mostra un'alterazione, è facile che il medico richieda un approfondimento. Possono emergere nuovi particolari che però non fanno una diagnosi, sono solo informazioni. Per dire che siamo di fronte a una bronchite o a un tumore occorre una valutazione globale del paziente».

Spesso lo specialista non spiega nulla e i pazienti immaginano il peggio.

«Ogni diagnosi è il risultato di un confronto di idee e di esperienze: non si fa il medico prescrivendo una ricetta telematica. Dico sempre ai miei studenti che bisogna alzarsi dalla sedia per parlare con i vari colleghi che svolgono le indagine richieste, come i radiologi o gli anatomopatologi e che senza ragionamento non vi può essere decisione».

La frammentazione delle responsabilità è una caratteristica solo italiana?

«Purtroppo in Italia è frequente. In Inghilterra o nella vicina Svizzera il sistema sanitario favorisce una stretta collaborazione con il territorio. C'è una trama che unisce università e ospedali. Se un paziente è inviato al pronto soccorso sarà poi il collega dell'ospedale a relazionarsi con il medico di famiglia».

La Regione Lombardia sta progettando le case di comunità, cosa ne pensa?

«Sembrano promettenti ai fini della collaborazione tra specialisti e della vicinanza al paziente. Bisogna vedere, poi, come verranno realizzate. Il medico di famiglia dovrà farne parte o comunque interagire con gli specialisti. I malati di oggi sono complessi (già la singola malattia lo è) perché sono per lo più anziani con diverse patologie, ed ecco che è sempre più importante prendere in considerazione l'insieme»

Si parla anche di potenziamento della Telemedicina.

«In molti casi funziona già. Ma è solo uno strumento che permette di comunicare e di risparmiare tempo, non può sostituire le visite. Da noi è impiegata con alcuni pazienti cronici, si insegna loro a rilevare i valori vitali, gli infermieri contattano i pazienti a domicilio fra un appuntamento e l'altro. La tecnologia è un ottimo servo ma un pessimo padrone scriveva David Forster. Usciamo da tre anni di pandemia in cui si parlava solo al telefono con i familiari dei pazienti ed è stato un disastro.

Recuperando la comunicazione diretta potremmo eliminare anche molti contenziosi. Le persone sanno che la Medicina non è infallibile ma davanti a una malattia con una prognosi sfavorevole si aspettano attenzione e la cura è anche vicinanza».

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