Il depistaggio è il facile alibi dei pm inconcludenti. Quando un'inchiesta non funziona si evocano «poteri forti», manine che cambiano le carte in tavola, poliziotti o carabinieri corrotti che imbeccano i testi, smontando e rimontando ipotesi investigative. È quello che certamente è successo per la strage di Via d'Amelio: Vincenzo Scarantino si è autoaccusato della strage, chi è finito in quel falso commando è stato giudicato colpevole salvo poi accusare gli inquirenti di averli forzati con metodi brutali e manipolati con false promesse.
Ma è un alibi che aveva un senso fino al nuovo codice di procedura. Dopo il 1989 il pm è il dominus assoluto dell'attività giudiziaria. Si sceglie gli ufficiali di polizia, ne conosce punti di forza e di debolezza. Lo scrive benissimo Claudio Martelli nel suo libro Vita e persecuzione di Giovanni Falcone (La Nave di Teseo): «Anziché fare del pubblico ministero l'avvocato della polizia, come Falcone avrebbe voluto, lo ha reso arbitro irresponsabile dell'iniziativa giudiziaria e padrone delle indagini anche se niente e nessuno lo ha preparato a un compito così impegnativo».
Chi come Antonino Di Matteo si è bevuto le panzane di Scarantino ha insistito nel chiedere la condanna del fantomatico commando in Appello, quasi come se quella verità di comodo andasse comunque difesa d'ufficio. I poveri rei confessi sono stati prima creduti dai magistrati poi scaricati solo perché rivendicavano la loro innocenza. «Per vent'anni non ci sono state nei loro confronti iniziative e nemmeno indagini», ricorda ancora Martelli nel suo libro parlando degli «abbagli» della Procura di Caltanissetta dopo quelli dei colleghi che si erano occupati dell'attentato dell'Addaura.
La stessa Caltanissetta che oggi reclama di non aver mai avuto contezza di una fantomatica pista eversiva né del possibile ruolo di Stefano Delle Chiaie nell'organizzazione della bomba piazzata sotto l'autostrada ma viene sbugiardata dai ricordi postumi di un ex carabiniere a Report e dal Pg Roberto Scarpinato, mai stato troppo simpatico a Falcone (secondo Ilda Boccassini, che lo chiamava D'Artagnan), pronto alla pensione, che ha tirato fuori dal cassetto una carta sparita da 30 anni e - pare - miracolosamente riapparsa sebbene da anni indaghi senza risultati sui cosiddetti «Sistemi criminali» e sui rapporti tra mafia, 'ndrangheta e P2 che potrebbero aver causato la morte del giudice calabrese Antonino Scopelliti, vergognosamente senza responsabili dopo 31 anni.
C'è una verità claudicante anche dietro la strage di Capaci dove morì Falcone con la moglie magistrato Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Dalla decriptazione realizzata da Gioacchino Genchi delle agende elettroniche di Falcone, come raccontate nel libro di Chiarelettere scritto da Edoardo Montolli, I Diari di Falcone , venne fuori che al ministero di via Arenula, alla presenza di un magistrato, Carmelo Petralia, pretesa da Genchi, venne fuori che qualcuno aveva acceso il pc di Falcone dopo la sua morte. In una stanza chiusa, messa subito sotto sequestro dal procuratore di Caltanissetta Salvatore Celesti, coi sigilli, al ministero della Giustizia. «C'era un file nascosto, denominato Orlando.bak, un file di backup per il quale mancava il file Orlando.doc - dice Genchi - Era sparito. Qualcuno lo ha cancellato... probabilmente perché dava fastidio. Il file Orlando.bak conteneva tracce degli appunti di Falcone per difendersi al Csm dalle accuse dell'allora sindaco».
Quel Leoluca Orlando Cascio che oggi rivendica la verità sul «filo nero che lega Capaci e Via D'Amelio alle bombe di Firenze e Roma del 1993» (ieri era il 29mo anniversario della strage di via Georgofili, su cui indaga senza grossi risultati la Procura di Firenze), lo stesso Orlando che trascinò Falcone per umiliarlo davanti al Csm con l'accusa di tenersi «le carte nei cassetti».Accuse che oggi si potrebbero rivolgere agli stessi magistrati che hanno indagato a vuoto sulla morte dei loro colleghi. Senza neppure un timido mea culpa.
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