Tutta la voglia di vivere in una gita

Si erano svegliati con una bella idea in testa. Dopo tanta chiusura tra le pareti di una casa, dopo tante restrizioni nei propri movimenti, tante regole da rispettare a puntino, finalmente prendersi una vera boccata d'aria

Tutta la voglia di vivere in una gita

Si erano svegliati con una bella idea in testa. Dopo tanta chiusura tra le pareti di una casa, dopo tante restrizioni nei propri movimenti, tante regole da rispettare a puntino, finalmente prendersi una vera boccata d'aria: lasciarsi alle spalle tutto, anche l'azzurro vivo del lago, e ascendere verso una vetta, incontro all'azzurro più pallido e più vasto del cielo. La funivia parte da Stresa, un gioiello sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, e arriva in cima al Mottarone, 1491 metri di altitudine. Meta consueta per i lombardi e i piemontesi, ma anche per i turisti stranieri che cautamente ricominciano a tornare in Italia. Luoghi civilissimi, che non evocano avventure estreme e pericoli. Si erano svegliati con questa idea, si erano messi in coda, un po' distanziati, per entrare nella cabina. Le cabine delle funivie hanno qualcosa di intimo e quasi di magico: si muovono filando silenziose, non hanno i rotori rumorosi degli elicotteri, sembrano piccole stanze semoventi piene di finestre che vanno su per il cielo. Salendo, l'arco della visuale si allarga. Immagino con un moto di pietà soffocante i gridi festosi dei bambini nel vedere le sponde del lago e le case allontanarsi, e nel voltare gli occhi in su, verso la cima che li aspetta. Immagino i volti dei passeggeri, la loro sensazione di una libertà finalmente riconquistata. Era già bello stare in riva al lago. Ma ora il lago si allontanava, l'acqua sembrava più vaga di un ricordo, e si stava avvicinando la montagna, l'aria della montagna, la purezza della montagna. A saper leggere nei cuori degli esseri umani, a bordo della cabina forse si sarebbe visto una gioia semplice, la gioia di una domenica all'aperto dopo tante domeniche di isolamento, la gioia della gita, di cui niente è più popolare, familiare, tranquillo. Non è giusto, è straziante che la sorte tenda agguati come questi. Il percorso dura una ventina di minuti. Un tempo davvero breve, che all'improvviso ha fatto precipitare i passeggeri nell'eternità. La cabina era ormai quasi arrivata, era nel punto più alto da terra. Il sole brillava sempre di più. Quando all'improvviso un sibilo fuori misura ha fustigato le orecchie dei passeggeri. E la cabina, quella che sino allora era stata uno spazio intimo, amico, si è trasformato in una trappola mortale. Poi si indagherà su cosa è successo e perché. Ma ora non possiamo che immedesimarci nelle donne, negli uomini, nei bambini, che hanno visto d'un colpo una bella idea domenicale diventare una inimmaginabile tragedia. Ora la cabina è accartocciata in mezzo agli abeti di un bosco. Un relitto, una carcassa. Come una farfalla con le ali impastate di fango. E noi piangiamo le vittime con pietà ma anche con rabbia.

No, in una bella domenica di maggio, nel cuore della primavera, dopo tanto inverno, non doveva succedere un incidente così. Sappiamo che un bambino è, al momento in cui scrivo, ancora in vita all'ospedale di Torino, in rianimazione, in pericolo. Cosa fare se non pregare sommessamente per lui? Che almeno lui e la sua innocenza si salvino.

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