Più che commissario, un liquidatore. A due anni dalla sua nomina alla guida del Pd romano la gestione Orfini ricorda il titolo del film prodotto dal papà Mario, un papocchio. La carriera di Matteo Orfini nel Pd, del resto, è tutta sotto il segno del paradosso: ex portaborse di D'Alema (e suo clone ufficiale, anche nei frequenti «diciamo») e poi sotto la sua ala cooptato prima dentro Italianieuropei quindi in Parlamento, l'ex giovane dalemiano Orfini è diventato presidente del Pd proprio con Renzi, ovvero l'arcinemico di Baffino. Un'investitura calibrata col bilancino delle correnti interne - la sua è quella dei cosiddetti «Giovani turchi», più a sinistra di Renzi ma meno a sinistra della sinistra -, che però ha portato a casa più problemi e insuccessi che altro. Specie a Roma, dove Orfini ha doppia carica: presidente nazionale e commissario dei Democratici nel raccordo anulare. «Il partito va rifondato e ricostruito su basi nuove» annunciò subito dopo la nomina, in pieno scandalo Mafia Capitale.
La rottamazione del partito romano in effetti ha funzionato, nel senso che il Pd nella Capitale da lì in avanti è andato in frantumi. La saga tragicomica di Ignazio Marino al Comune di Roma porta la firma anche di Orfini, come co-regista. Il commissario Matteo all'inizio era il difensore ufficiale dell'allora sindaco già scaricato da mezzo Pd («Abbiamo bisogno di un sindaco come Marino, ce la sta mettendo tutta e che va incoraggiato e sostenuto, solo Buzzi e Carminati vogliono mandare a casa Marino» proclamò Orfini), salvo poi orchestrane il siluramento dal Campidoglio, con le dimissioni forzate, quando non era più conveniente difenderlo. Non è un caso che Marino ce l'abbia a morte particolarmente con Orfini: «Mi ricorda un po' quella bellissima canzone di Elton John, Empty Garden, quando canta che un insetto da solo può rovinare un intero campo di grano. Ha portato alla più grave disfatta del partito a Roma dagli ultimi 30 anni e invece resta attaccato alla poltrona».
In effetti, se quello di Marino è stato un pasticcio in piena regola, il seguito per il Pd a Roma è stato anche peggio, un film horror, o a scelta una gag di Tafazzi. Autodimissionati e poi sconfitti clamorosamente dai grillini, malgrado Orfini fosse sicuro dei risultati già prima del primo turno. «Non so con chi andremo al ballottaggio, vedo la Raggi un po' affannata, nervosa e in difficoltà» vaticinò, mentre a Napoli «andiamo al ballottaggio con De Magistris». Perse entrambe. Anche se su Roma si era impegnato personalmente, «se vince Giachetti mi laureo». Niente, Campidoglio al M5S, laurea in archeologia di nuovo rimandata. Il traguardo più probabile per Orfini, adesso, è piuttosto l'allontanamento dalla guida del Pd romano, come hanno già chiesto esponenti tra cui il ministro Madia («Siamo stati rottamati dai cittadini, Orfini lasci la guida»), mentre Giachetti ha rassicurato tutti che «è in scadenza». Nel frattempo però, passeggiando tre macerie piddine della Capitale (del resto è un quasi archeologo), Orfini ha fatto in tempo a chiudere una storica sede ex Pci come quella di via dei Giubbonari.
Una fine indegna: sfrattati dal Comune, 170mila euro di debiti. «Provo rabbia per come è stato gestito di schifo questo partito negli anni passati» si è sfogato Orfini. Anche negli anni presenti non ci si è fatti mancare nulla, diciamo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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