Temperatura registrata all'esterno del palazzo dei ricevimenti, a Yongpyeong: -3. Temperatura «percepita» all'interno, perlomeno quando ha fatto il suo ingresso tra i 200 invitati il vicepresidente americano Mike Pence: -20. Prevedeva il cerimoniale che Pence si sarebbe dovuto sedere di fronte a Kim Jong-nam, capo del Presidium dell'Assemblea nazionale del popolo coreano e virtuale numero due del dittatore nord coreano Kim Jong-un. Sicché lui, dopo essersi preso il lusso di arrivare in ritardo, snobbando i presenti, si è limitato a un saluto «alla voce» rivolto a chi sedeva al tavolo destinatogli e se ne è andato via senza neppure sedersi. Alla faccia del galateo olimpico e di quello diplomatico. Solo un gesto da maleducato? Naturalmente no. Lo sgarbo era inteso a dimostrare a quelli del Nord e ai presenti (non ultimo il premier giapponese Shinzo Abe) che la disputa delle settimane scorse tra Washington e Pyongyang (condita da battute ai limiti del pecoreccio su chi ha il «bottone» nucleare più grosso, fra Trump e Kim) non è stata dimenticata. E che gli Usa, nonostante il volemose bene dei Giochi non dimenticano. E non si fidano. Anche se poi, per non guastare del tutto il clima di festa, il portavoce di Seul ha precisato che Pence aveva avvertito che avrebbe cenato con gli atleti Usa. E di conseguenza non era stato previsto un posto a tavola per lui. Bugia smascherata dalle eloquenti immagini della tv sudcoreana, che ha inquadrato il «buco» a tavola smentendo una lambiccata ricostruzione del cerimoniale.
Di tutt'altro tenore fino al «calorosamente fraterni», verrebbe da dire - gli incontri ravvicinati «al vertice» sulle tribune. Dove il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, ancor prima di prendere posto sullo scranno a lui assegnato si slancia a stringere la mano di Kim Yo-jong, la sorella più giovane del leader nordcoreano. Una stretta di mano vigorosa, accompagnata da un radioso sorriso che la giovane plenipotenziaria del Nord ha ricambiato di cuore.
America a parte (fedele al motto che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio) si direbbe che a Pyeongchang stia andando in scena la prova generale di un riavvicinamento fra le due Coree che sembra destinato a durare e a irrobustirsi anche dopo le gare le medaglie e i trofei. Costringendoci infine (politici e giornalisti occidentali) a familiarizzare con il diabolico scilinguagnolo di una lingua foneticamente troppo «liquida», per noi.
«La pace è in cammino», prometteva nella serata di inaugurazione uno striscione che sbatteva nel vento di una notte gelida, fra dragoni e bestie feroci, in una coreografia un po' minimalista rispetto al kolossal delle Olimpiadi di Pechino. Ma quanti cuori in tumulto, e che battimani e che ululati beneauguranti, quando il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha accolto il capo della delegazione nordcoreana Kim Yong-nam, Capo dello Stato de facto, il più alto funzionario di Pyongyang mai in visita al Sud. Battimani frenetici che si rinnovano quando il popolo sugli spalti accoglie la sfilata congiunta della Corea del Nord e della Corea del Sud che entrano insieme, marciando all'unisono alle spalle di due atleti, uno del Nord, l'altro del Sud, che sventolano la bandiera che reca la silhouette di una Corea unita di colore blu in campo bianco.
Sugli spalti, a godersi un evento che un giorno forse potrà dirsi «epocale», folle imbacuccate sotto plaid, berretti, mantelle, abbracciati a cuscinetti termici e trappole elettriche per difendere mani e piedi dal
vento polare. L'ultimo flash è per lui, l'accigliato vicepresidente americano Pence, colto infine - forse dimentico per un momento del ruolo - ad applaudire entusiasta la sfilata degli atleti. Se non è un buon segno questo...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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