La città d’oro, la città delle cento torri, sinfonia di pietre, colori e forme. La Praga magica di Angelo Maria Ripellino, “svaniranno in un baratro i persecutori, i monatti... fatti forza, resisti”, era il 1973. La città che sapeva rendere felice Mozart, “i miei praghesi mi capiscono”, la città che seppe conquistare il cuore, la fantasia ed il genio artistico di Bertold Brecht, “in fondo alla Moldava vanno le pietre, /sepolti a Praga riposan tre re/ A questo mondo niente rimane uguale/ la notte più lunga eterna non è”. La “mammina” di colui che “era un fanciullo debole e delicato; per lo più serio, ma disposto talvolta a fare il chiasso; un fanciullo che leggeva molto e non voleva fare ginnastica”, Franz Kafka.
Ma Praga è anche la città natale di molti uomini comuni, coraggiosi, operosi, silenziosi, pronti a battersi per riconquistare la libertà perduta.
In questa schiera di uomini, in un lontano 5 ottobre 1936, da una colta e ricca famiglia borghese di Praga, nacque Václav Havel.
Cresciuto in un ambiente culturalmente vivace e frizzante, con la presa del potere nel 1948 del Partito Comunista Cecoslovacco, sostenuto da Mosca, e con l’instaurazione di un regime fortemente totalitario guidato prima da Klement Gottwald e poi da Antonin Novotny, la famiglia Havel fu messa in grave pericolo dopo che in un articolo del 23 febbraio del 1949, furono accusati di essere stati filotedeschi.
Gli Havel furono espropriati di tutti i loro beni. Le industrie presenti sul territorio furono messe al servizio di Mosca, migliaia di oppositori al regime vennero uccisi, moltissimi operai costretti ad andare a lavorare nelle miniere di uranio, i politici internati, violenze e colpi di armi risuonavano nelle deserte e polverose vie della città.
Il giovane Václav, tra restrizioni ed innumerevoli ostacoli, riuscì a compiere gli studi liceali, ma non poté accedere all’università, così si mantenne facendo dei saltuari lavoretti, per poi iscriversi ai corsi serali dell’università tecnica ceca di Praga fino al 1957. Contemporaneamente studiò inglese e tedesco.
Terminato nel 1960 il servizio militare, lavorò come macchinista in vari teatri, dove iniziò a presentare alcune sue opere e proseguì lo studio della drammaturgia, una delle sue grandi passioni che lo accompagneranno per tutta la vita.
Il suo primo lavoro è La festa in giardino del 1963. Un teatro il suo, volto a stimolare l’impegno e la riflessione politica: “Provocare l’intelligenza dello spettatore, appellarsi alla sua fantasia, costringendolo a riflettere su questioni che lo toccano direttamente in maniera da vivere intimamente il messaggio teatrale”.
Saranno questi anni importantissimi nella vita del giovane Václav, prima il matrimonio con la moglie Olga, compagnia di una vita, “io un ragazzo borghese, un intellettuale eternamente impacciato, lei una ragazza proletaria molto originale, sentimentalmente sobria, a volte mordace e antipatica”.
Poi, un piccolo spiraglio di apertura politica nel profondo buio della dittatura comunista, la salita al potere nel 1968 del segretario generale, Alexander Dubcek, che insieme ad altri componenti del suo partito, volevano trovare una reale soluzione per far coesistere socialismo e democrazia. Molto dibattito, confronto ed un timido entusiasmo per quella che all’apparenza poteva sembrare una vera svolta politica. Fu mera illusione!
Niente alla fine sembrò cambiare, anzi un destino ancora più crudele stava per abbattersi su Praga.
“Agli inviti della ragione si reagì inviando i carri armati”, disse Havel ed infatti il 21 agosto 1968 da Mosca i terribili mezzi russi invasero l’intero paese. Tra colpi di fucili, bombe, arresti, omicidi, violenze e repressioni, ci fu un giovane, Jan Palach che decise di darsi fuoco nella piazza di San Venceslao e divenire così il simbolo di una Praga pronta a resistere ed a combattere per la propria indipendenza e libertà.
Havel durante l'invasione sovietica partecipò come corrispondete su vari quotidiani e su Radio Cecoslovacchia libera prima che fosse definitivamente chiusa dal regime. Per mantenersi cominciò a lavorare in una birreria e continuò nel portare avanti la sua passione e produzione per i drammi.
Saranno gli anni ‘70, l'inizio di un lento e logorante sfaldamento del potere sovietico in Cecoslovacchia, dato dagli enormi problemi economici e dall’insofferenza politica della Slovacchia che non voleva sottostare a Praga, preceduta anche dalle famose dichiarazioni di Novotny, simbolo del comunismo più conservatore, che aveva definito gli slovacchi “nazionalisti e separatisti”.
Ma sarà soprattutto la musica il filo conduttore di questa svolta. L’inizio del declino partì proprio dalla sua forza trasversale e terminò in quei lontani anni ’90, quando al castello di Praga arrivarono i Rolling Stone.
La rock band, i Plastic people of universe, gruppo di musica psichedelica, molto popolare, erano stati repressi dal regime ed arrestati.
Havel, Jan Patočka, Zdeněk Mlynář, Jiří Hájek, Pavel Khout e 247 cittadini sottoscrissero un documento di dissenso nei confronti del governo comunista cecoslovacco che passò alla storia come Charta 77.
Il testo del documento di Charta 77, apparve ufficialmente per la prima volta su un giornale in Germania Ovest ed i firmatari si presentavano come: “Un’associazione libera, aperta e informale di persone [...] unite dalla volontà di perseguire individualmente e collettivamente il rispetto per i diritti umani e civili”.
Charta 77 era un manifesto di non violenza, di libertà, di civiltà, di democrazia che mirava a svegliare gli animi di tutti i cittadini per muovere una silenziosa ma imponente e capillare ribellione al regime.
La risposta del regime fu durissima: i quotidiani vicini al partito comunista bollarono il documento come “abusivo, antistatale, antisocialista e demagogo”. I firmatari furono definiti “traditori e rinnegati”, “politici falliti”, “avventurieri internazionali”.
Confische, perquisizioni, campagne denigratorie. Molti persero il lavoro, altri furono arrestati e rimasero in carcere per cinque anni, come capitò allo stesso Václav. Altri ancora persero la cittadinanza o furono espulsi.
Il regime aveva dimostrato che ogni prova di resistenza ad esso sarebbe stata vana e repressa duramente. Havel diceva infatti in questi difficili momenti: “L’onnipresente e onnipotente stato cadrà vittima del suo stesso principio mortifero perché la vita la si può violentare a lungo e a fondo, la si può schiacciare e mortificare, è però impossibile fermarla definitivamente”.
Havel fu condannato per ‘sovvertimento alla repubblica’ e fu recluso con alcuni amici nel carcere di Hermanice. Passava le lunghe, intrepide, intramontabili e dure giornate a saldare griglie di latta e tagliare flange dalle lamiere.
Gli mancavano i dolci, la cioccolata, il teatro, ma soprattutto sentiva lontana la moglie Olga. Seguiranno giorni in cui passerà a leggere Kafka, la Bibbia e Beckett.
Da quel piccolo angolo di carcere scriverà Le Lettere a Olga, in cui riuscirà ad unire e trasmettere amore, tenerezza, riflessioni filosofiche esistenziali, delicatezza umana, calore affettivo, vicinanza, passione e amarezza. Prive di umorismo, per disposizioni del direttivo del carcere, riuscirà a rendere comunque l’immagine di un uomo afflitto e solitario, ma capace di resistere a questa sua ingiustizia anche grazie alla cultura, alla lettura, alla sua passione nel ricercare sempre di apprendere qualcosa di nuovo, di insolito, di non scoperto fino ad ora.
E sarà quasi costretto, in questi lunghi anni a dover trovare un compagno di viaggio.
Un compagno di viaggio che lo prenda per mano e lo porti alla scoperta di se stesso, della propria interiorità. Saranno numerose infatti le sue riflessioni sull’esistenza umana, ed in questo suo lungo ‘cammino’ in carcere, si fece portare Introduzione al Cristianesimo di un giovane Ratzinger (futuro Benedetto XVI).
Havel uscì dal carcere negli anni in cui scoppiò la rivoluzione Polacca del 1980 e Gorbaciov a Mosca con la sua politica di riforme avviò numerosi processi di cambiamento basati sulla Glasnost (trasparenza), a Perestrojka (ristrutturazione) e Uskorenie (accelerazione - sviluppo economico-) scongiurando il rischio di un conflitto nucleare tra Usa e Urss.
L’11 ottobre 1986, Gorbaciov ed il presidente americano Reagan si incontrano a Reykjavík per discutere la riduzione degli arsenali nucleari installati in Europa. Ciò portò alla firma del Trattato INF del 1987, sulla eliminazione delle armi nucleari nel continente europeo. L’anno successivo Mosca annunciò la fine della dottrina Breznev.
La fine della dottrina Breznev, conosciuta anche come “dottrina della sovranità limitata”, segnò un passaggio essenziale nell’evoluzione politica europea e mondiale. Nacque così la “dottrina Sinatra”, (definizione scherzosa data dal governo Gorbaciov) riferendosi alla famosa canzone My Way. Gerasimov, capo del dipartimento informazione del Ministero degli Esteri russo, affermò: “Oggi in Unione Sovietica abbiamo sostituito la dottrina Breznev, che non esiste più e forse non è mai esistita, con la dottrina Frank Sinatra, dal titolo di una sua famosa canzone ognuno ha una sua strada. Credo infatti che oggi ogni paese dell’Est abbia la sua strada”.
In Polonia alle elezioni semilibere, trionfò Solidarnosc e divenne premier l’intellettuale Tadeusz Mazowiecki, amico di Havel e di Woytila. Lentamente i paesi satelliti dell’Unione Sovietica, fino ad allora avvolti nel terribile manto rosso, cominciarono ad insorgere. Prima Praga, poi la simbolica e determinante caduta del muro di Berlino, l’Ungheria e la fine del tiranno Ceausescu.
Mentre i regimi dell’Est europeo stavano cadendo e la protesta aumentava nelle strade il Partico comunista cecoslovacco annunciò che avrebbe rinunciato al proprio potere politico.
Il 29 dicembre lo slovacco Alexander Dubcek fu eletto presidente della Camera e Václav Havel diveniva Capo di Stato della Cecoslovacchia ed entrava trionfalmente nel castello di Praga. Giurò lealtà e senso dello Stato nella Sala Vladislao, dove vi rimase per quattordici anni. In questa sala vi furono incoronati re ed imperatori ma soprattutto qui si celebrò la grandezza e la fine del feroce comunismo sovietico-cecoslovacco. “Il governo è tornato alla gente!” esclamò Havel.
La cerimonia tuttavia non terminò nel castello, ma come descrisse bene Andrea Possieri sull’Osservatore Romano, “proseguì nella cattedrale con la messa del Te Deum celebrata in occasione della nomina del presidente da parte del primate ceco František Tomášek. Non succedeva una cosa del genere dal 1948. “Ci troviamo qui nella cattedrale di San Vito — disse il cardinale — madre di tutte le nostre chiese. Come sempre durante i secoli passati, nei momenti di gioia siamo riuniti per ringraziare Dio della grande speranza che ci ha dato in questi giorni”.
Havel attraversò la Porta d’Oro ed entrò in chiesa accompagnato dalla moglie Olga.
Prima di giungere alla cappella di San Venceslao dove lo attendeva il vescovo Jan Lebeda, Havel si inginocchiò facendosi il segno della croce davanti alla tomba dei re boemi e di fronte alle reliquie di Sant’Agnese che era stata canonizzata da Giovanni Paolo II.
Alle elezioni democratiche dell’anno dopo, Havel vinse, ma niente poté nell’impedire la separazione della Cecoslovacchia. Di cui rimase personalmente ferito.
Della Repubblica Ceca Havel fu il primo presidente e grazie a lui, prima entrò nella Nato e poi nell’Unione Europea.
In quegli anni non ottenne solo riconoscimenti ed apprezzamenti in patria ma anche all’estero. Strinse un’amicizia sincera con il Dalai Lama. Apprezzato dalla Regina Elisabetta II, sono famose le sue foto in cui ride con Clinton e poi con la Thatcher, Reagan e Chirac… i leader del mondo occidentale, i rappresentanti delle grandi democrazie lo avevano pienamente riconosciuto come un leader sincero e leale verso il suo paese e la comunità internazionale.
Barack Obama lo volle incontrare quando divenne presidente degli Stati Uniti. Lo stesso presidente americano alla morte di Havel scrisse: “Mi sono ispirato alle sue parole e alla sua leadership”.
Salì sul ‘gradino’ più alto del potere boemo, con l’umiltà dei grandi e con il sorriso che sempre lo contraddistinse. Anticomunista convinto, anticonformista, tollerante, liberale e democratico. Lungimirante e razionale. Vedeva la vita come una rappresentazione teatrale. Era un po’ il Reagan hollywoodiano di Praga. Abile e spontaneo. Spigliato e deciso. Amante delle birrerie e dei caffè, “il poeta dei caffè che sacrificò la fantasia al bene comune”, ha scritto Claudio Magris. Spirito di sacrificio e amante della politica come servizio. Ironico e pungente, umorismo e sarcasmo, briciolo di follia e disinvoltura. Nervi saldi e battuta pronta. Eleganza sobria e mai fuori dalle righe. Occhi di ghiaccio, sguardo profondo, penetrante e sincero. Presidente rock. Simpatizzante dei Rolling Stone e di Frank Zappa, che invitò nella sua residenza quando era premier. La band suonò il primo concerto in un paese ex comunista. Amico del chitarrista statunitense Lou Reed che era sorpreso e meravigliato per come un attore e drammaturgo potesse avere quella passione civile e politica. È bellissima l'immagine di Havel, in abito nero elegantissimo, capelli al vento, sorriso smagliante e gestualità da miglior attore hollywoodiano, con il bicchiere nella mano destra, si rivolse al cantautore e disse sorridendo: “Lo sai che se sono Presidente è grazie a te?”.
La vita di Havel, spiegò lo scrittore ceco Milan Kundera, “è interamente costruita su un solo grande tema; non ha il carattere di un vagabondaggio, non conosce cambiamenti di orientamento. È una sola gradazione continua e dà l’impressione di una perfetta unità compositiva”. Insomma, la vita di Václav Havel è un’opera d’arte.
Un'opera d’arte che tutti i ciechi vollero conservare come autentica fino all’ultimo istante.
“Per noi rappresentava tutto quello che democrazia e libertà significano.
Era un uomo coraggioso che aveva lottato a nome di tutti noi...”, disse piangendo un anonimo cittadino, molto anziano il giorno della sua morte. Era il 18 dicembre 2011, e su Praga erano già accese le prime luci di Natale. Un freddo e triste Natale avvolgeva la città.
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