«Danneggiati oltre ogni possibile restauro» han detto gli esperti davanti ai cinque pannelli in pioppo rimasti a mollo per circa 18 ore in sette metri d'acqua, fango e detriti misti alla nafta tracimata dalle caldaie divelte dalla furia dell'Arno la mattina del 4 novembre 1966. Su quella superficie lignea che una volta unita misura 6,66 per 2,62 metri, Vasari nel 1546 ha dipinto un'emozionante Ultima Cena destinata al convento delle Murate, un ordine di clausura stretta soppresso in epoca napoleonica con conseguente trasferimento di tutti i beni nel museo dell'Opera di Santa Croce. La piazza antistante, la bellissima basilica francescana con l'annesso complesso di chiostri, cappelle, archivi ed ente museale, è una specie di catino che l'alluvione di Firenze trasformò nell'immondo bacino in cui confluisce lo Stige con gli altri quattro fiumi dell'Inferno. Non a caso lì sotto morì una delle 35 vittime accertate dalla prefettura, fu praticamente distrutto l'enorme crocifisso di Cimabue e venne danneggiato in modo che sembrava irreversibile il capolavoro del Vasari.
Nel 2004 l'opera è stata trasportata nell'Opificio delle pietre dure per un estremo tentativo di recupero. «Avevamo poche speranze e molti sogni» racconta Marco Ciatti, direttore del prestigioso istituto fondato nel 1588 dal Granduca Ferdinando I de' Medici e oggi trasformato in laboratorio di restauro, istituto di ricerca e scuola di alta formazione per restauratori. Due anni dopo sono iniziati i lavori e domani, durante le celebrazioni per il cinquantenario dell'alluvione alla presenza del presidente Mattarella, l'Ultima Cena verrà restituita al mondo in tutto il suo splendore. Ci sono voluti dieci anni di duro lavoro e due diversi progetti sostenuti nella prima fase dalla Fondazione Getty mentre per tutta la parte estetica che consiste nel recupero di quasi sette metri di dipinto, è intervenuto il Gruppo Prada in collaborazione con il Fai (Fondo ambiente italiano). Ci è stato concesso il privilegio di assistere al rush finale dell'epica battaglia che i restauratori hanno vinto millimetro dopo millimetro. «Cinque di loro sono stati assunti a tempo pieno per tre anni grazie al contributo di Prada, vorrei poterli tenere» avverte Ciatti facendoci entrare nell'antro dei miracoli. In questo immenso stanzone che sembra la più bella delle botteghe rinascimentali è passato di tutto.
Dal giorno della sua assunzione nel 1984 il direttore dice di aver avuto la fortuna di lavorare su la Madonna del cardellino di Raffaello, la croce di Santa Maria Novella dipinta da Giotto, la decollazione del Battista di Caravaggio e per ben due volte sulla madonna lignea di Donatello. «Questo lavoro dà soddisfazioni impagabili» conclude covando con lo sguardo un polittico di scuola senese del 1200 che forse è il più antico dipinto su tela esistente al mondo.
Poco lontano c'è la postazione di restauro de l'Adorazione dei Magi che Leonardo cominciò a dipingere nel 1481 e non finì mai. Anche se incompiuto e catalogato tra le opere giovanili del Maestro, il quadro è di una bellezza sconfinata. Posare gli occhi prima su questo grandioso abbozzo a monocromo e poi sulle preziose tinte ritrovate del Vasari è sconvolgente: perdere simili capolavori sarebbe un lutto per l'umanità.
Al momento della visita i cinque pannelli sono ancora divisi per permettere di reintegrare il colore perduto con il cosiddetto tratteggio fiorentino, uno dei tanti segreti dell'Opificio. «Le mancanze erano tantissime ma per fortuna piccole spiegano i restauratori - il vero problema è stato trovare un sistema per staccare la velinatura incollata sul dipinto all'indomani dell'alluvione per impedire che si staccasse il colore. È stata un'idea geniale dell'allora soprintendente Ugo Procacci, senza di lui non ci sarebbe più l'Ultima Cena ma, purtroppo, con la pittura si fissò anche lo sporco». Da qui la necessità d'inventare un gel che ha permesso la delicata operazione: un millimetro alla volta. Ancor più macchinosa la fase di consolidamento del legno iniziata con una spettacolare simulazione dell'alluvione per capire come intervenire. «Abbiamo fatto un tubo d'acqua di sette metri dentro cui abbiamo messo i modellini del dipinto per vedere le reazioni del pioppo» racconta Ciatti spiegando che i danni vengono fuori col tempo perché l'acqua entra capillarmente nel legno marinandolo a fisarmonica (cioè con avvallamenti e risalite) oltre a formare crepe e bolle d'ogni tipo.
Il processo potrebbe perfino ricominciare per cui l'opera torna in Santa Croce con una cornice che stabilizza e controlla
l'umidità. «È come uno che ha avuto un infarto: non sarà mai più come prima, dovrà sempre prendere delle precauzioni» sostiene. Pazienza. L'Italia con in testa fiorentini e toscani non può nemmeno pensare all'alternativa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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