Quel velo salvavita che non vogliamo più

Ricordiamo tutti benissimo quei giorni a cavallo tra febbraio e marzo dell'anno scorso. Era da poco terminato il Carnevale, e dalla festa in maschera passammo alla tragedia in mascherina.

Quel velo salvavita che non vogliamo più

Ricordiamo tutti benissimo quei giorni a cavallo tra febbraio e marzo dell'anno scorso. Era da poco terminato il Carnevale, e dalla festa in maschera passammo alla tragedia in mascherina. Dal nascondersi per esibirsi al coprirsi per salvarsi. Il mondo rivoltato come un calzino, e l'odore della morte che i nasi avvertivano ovunque, anche se impacchettati, e le bocche costrette a concedere delega assoluta agli occhi, in occasione dei rarissimi sorrisi che volevano confortare e confortarsi. Con quello straccetto sulla faccia, non ci riconoscevamo nemmeno allo specchio: chi è quello? Che cosa vuole da me? Perché mi guarda in cagnesco? Che cosa gli ho fatto di male? Le donne improvvisamente sembravano tutte brutte, gli uomini sembravano tutti rapinatori. Ma perché, poi, usare il tempo imperfetto se quell'imperfezione persiste, se il presente è ancora una bestemmia? Perché la mascherina è come la barriera del suono, è come l'effetto doppler di quando passa l'ambulanza con la sirena: quanto più ti è vicina, tanto meno la senti. E ancora oggi, in casa, nudi alla meta della solitudine, drizziamo le orecchie al minimo sibilo lontano, fosse anche quello di un tale che chiama il suo cane. Soltanto quando sarà caduto quel muro di Berlino che peserà sì e no cinque grammi ma che indossiamo come un cilicio, potremo dire che la penitenza sarà finita. Se non ora, quando? L'indice Rt indica, addita la luna, ma noi abbiamo quotidianamente lo sguardo fisso su di lui, non sulla luna, aggrappandoci allo zero virgola che è come il buon esito di un esame del sangue collettivo, come un marcatore umorale. E spesso ci assale la paura di non aver più paura, di fare il passo più lungo della gamba, di dimenticare, uscendo per andare a fare la spesa, ciò che vale più di mille portafogli, cioè il pessimismo della ragione. Nella patria dell'ottimismo (anche di quello sbruffone e ingannatore), gli Stati Uniti, si dice che chi ha già offerto la spalla alla miracolosa punturina, per una o due volte, come da protocollo, può ormai ritenersi libero. «Oggi è un grande giorno per l'America». L'abbiamo già sentita, questa frase. E anche da noi le parole dei virologi più «aperturisti» sono musica per i turisti che preparano le valigie. Calma ragazzi. Come diceva quel tale che avanzava tra due ali di folla non plaudente, ma ostile? «Adelante con juìcio». E anche allora, nella Milano del XVII secolo, c'era la peste... Eppure, prima o poi quel giorno arriverà. Il giorno in cui tutte le donne torneranno a essere belle, anzi, più belle di prima, e nessun uomo sembrerà un rapinatore, ma un amico ritrovato.

Il giorno in cui cadrà la barriera del suono portandosi via le sirene delle ambulanze, in cui, guardandoci allo specchio, diremo: ah, sei tu, dove sei stato per tutto questo tempo? Il giorno in cui sarà un piacere scoprire di non aver dimenticato qualcosa, uscendo per andare a fare la spesa. Di non aver dimenticato, insieme al pessimismo della ragione, anche quel maledetto e benedetto straccetto che, forse, ci ha salvato la vita.

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