Una storia da riscrivere. Un campione da rimodellare. Le incredibili gare di Mo Farah, l'icona inglese delle corse lunghe del mezzofondo (oro dei 5mila e 10mila metri ai Giochi di Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016, oltre a tanti ori mondiali ed europei) sono diventate solo l'apparenza, la dimensione di un talento. Il campione è tutt'altro e forse dovremmo chiederci, ora, se anche in quest'ultima storia che ci ha raccontato ci sia tutta la verità o ne manchi qualche spicchio. La rivelazione è affiorata da una intervista della Bbc. Nemmeno a farlo apposta quando Boris Johnson, il leader dei conservatori, è andato a casa. La parte Tory ha sempre preferito la linea dura sull'immigrazione, anche se sono tanti i campioni dello sport immigrati, inseriti, con storie difficili e talvolta violente, che hanno gratificato l'Inghilterra con le loro imprese: dall'atletica alla boxe.
Mo Farah fatto Sir dalla Regina, gloria sportiva nazionale, oggi 39enne padre felice con tanto di prole, è uno di questi con l'aggravante, ha raccontato, di essere stato un immigrante clandestino. Anzi peggio. È arrivato nel Regno Unito non come rifugiato, così diceva quella che ormai è leggenda, bensì è stato venduto ed obbligato a lavorare da bambino come servo per accudire altri bambini in una famiglia somala. Secondo le leggi inglesi Mo, raccontandosi così, rischiava di incorrere nelle conseguenze per i tratti illegali dell'ingresso nel Paese e per aver ottenuto la cittadinanza. Ma il governo britannico ha fatto sapere che non ci saranno provvedimenti: Sir e Icona era e tale resterà. Ed è forse questa la ragione che lo ha indotto a riesumare tranquillamente la storia incredibile di un incredibile (a parole, non a fatti) campione. Lui, come tanti, infilato nei fatti di sport che insegnano a credere nel futuro e in se stessi. Poi, certo, ci vuole qualche colpo di fortuna e Mo Farah lo ha trovato in un insegnante amico. La prima storia diceva che Farah era arrivato dalla Somalia come rifugiato politico con i genitori. Oggi, invece, si scopre che la madre e due fratelli vivono in Somalia. Era neppur vero che il padre fosse consulente informatico, nato a Londra, trasferito in Somalia dove si era sposato, e tornato in Inghilterra.
Dunque la storia, nuova e si presume vera, parte con il piccolo Mo che, in realtà, si chiamava Hussein Abdi Karim, figlio di un contadino somalo ucciso durante la guerra civile, portato a Gibuti con la famiglia, venduto a 9 anni ed affidato ad una donna, che non conosceva, incaricata di farlo arrivare illegalmente, con passaporto falso, nel Regno Unito. Ma una volta giunto a destinazione, il bambino venne consegnato ad una famiglia che ne fece un servo. Hussein vide la donna stracciare il biglietto sul quale erano scritti i contatti con la sua gente e da quel momento capì, dice lui, «di essere nei guai». Anzi di peggio, davanti alla minaccia della donna: «Se vuoi rivedere la famiglia, non dire niente».
E niente fu, finché non venne mandato a scuola. Parlava male l'inglese e la tutor, Sarah Rennie, notò che i suoi genitori non si presentavamo mai. Era un bambino alienato che solo nella corsa esprimeva senso della vita, una sorta di linguaggio. Farah rivelò a Alan Watkinson, il professore di educazione fisica, la sua vicenda, il passato in Somalia, il servizio da schiavo a cui era sottoposto. E da qui cambiò la storia. I servizi sociali lo affidarono ad una famiglia somala. Gli arrivò la cittadinanza, iniziò il percorso nelle gare internazionali che lo hanno portato ad essere un fuoriclasse. Fuoriclasse in tutti i sensi, nel correre della vita.
Chissà mai se Mo Farah avrà letto «If we must die» («Se dobbiamo morire»), poesia di Claude Mc Kay, autore afro americano che chiamava i neri d'America a morire con nobiltà, interpretandone la rabbia. Mo, anche se non l'ha letta, l'ha ben interpretata: è morto il suo passato, non la sua storia.
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