"Il vero scandalo? Quei pm in contatto con gli imputati"

La vittoria morale del fondatore del Foglio che definì una "boiata" l'inchiesta di Roma: "La mafia è altro..."

"Il vero scandalo? Quei pm in contatto con gli imputati"

Mafia Capitale, è tempo di archiviazioni. La procura di Roma ne ha chieste 116, tra politici imprenditori e funzionari coinvolti nell'inchiesta sul «mondo di mezzo». Tra questi l'ex sindaco Gianni Alemanno e il presidente della Regione Nicola Zingaretti, nome che era rimasto più in sordina. Nel giorno stesso dell'annuncio dell'inchiesta da parte del procuratore capo Pignatone a un convegno del Pd, Giuliano Ferrara eruppe in uno dei suoi exploit provocatori, e profetici. Mafia Capitale? «Una boiata pazzesca», di mafia neppure l'ombra. «La vera smentita dell'impianto accusatorio dichiara il fondatore del Foglio arriverà quando un giudice terzo dirà, se lo dirà, che non c'era alcuna clausola mafiosa tra i maggiori imputati di questo processo. Per adesso abbiamo una richiesta di archiviazioni da parte della stessa procura davanti a situazioni di evidente improcedibilità. Si tratta di persone accusate da Buzzi sul quale pesa il sospetto della ritorsione, è palese il suo tentativo estremo di accreditarsi come collaboratore di giustizia».

Assistiamo all'ennesima metamorfosi del «detenuto rieducato»? «Buzzi è l'eroe della Redenzione sociale secondo l'idea umanitaria coltivata dalla sinistra politica e dai suoi alleati giudici, da Miriam Mafai e da Oscar Luigi Scalfaro. Salvo poi scoprire che Buzzi parlava al telefono con Giancarlo de Cataldo, il magistrato autore di Romanzo Criminale».

Al Csm la richiesta di trasferimento per de Cataldo, tuttora in servizio presso la Corte d'appello di Roma, potrebbe cadere nel vuoto.

«I magistrati che fanno un'inchiesta, poi ispirati dalle carte giudiziarie scrivono romanzi e poi si scopre che i romanzieri che hanno fatto da battistrada alla nuova inchiesta erano in contatto con i principali imputati... in qualunque paese una tale incrostazione verrebbe smantellata dalla totale incredulità pubblica, veicolata da editorialisti, uomini di legge, osservatori. Invece in Italia non succede».

Perché?

«Aveva ragione Marco Pannella, viviamo al di fuori di un normale stato di diritto. Io sostengo dal principio che la mafia autoctona all'ombra del Cupolone non esiste. Vedremo se un giudice lo certificherà con una sentenza. Il fatto è che i tre magistrati, Ielo, Tescaroli e Cascini, vengono da fuori e non conoscono Roma».

Da che cosa deriva la sua convinzione?

«Alcuni elementi mi hanno portato a ritenere che qualcuno si stesse adoperando nella costruzione di una storia: l'annuncio sotto i riflettori al convegno Pd, gli arresti clamorosi, le intercettazioni soffiate ai giornali con una tempistica singolare... La spinta politica era evidentemente più forte del dovere di accertamento della verità giudiziaria. Ora è tutto il protrarsi del processo a indicare le scarse basi su cui si fonderebbe l'accusa di mafiosità. Che ci fossero connessioni tra le coop di ex detenuti e la mala dei cravattari, con ampi addentellati nel mondo politico, nessuno può escluderlo. Illegalismo e ruberie in abbondanza, la mafia è altra storia. I mafiosi uccidono, ci si associa attraverso un rituale, c'è una struttura familistica, e poi ci sono gli affari che contano, le raffinerie della droga, i grandi appalti, la finanza, mica la coop che raccoglie le foglie cadute nei parchi. Il mitologico arsenale di Carminati era un coltellino per tagliare il pesce à la façon giapponese».

Buzzi e Carminati restano al 41bis.

«L'uso abnorme della detenzione preventiva, c'è da stupirsi? Carminati, er Cecato, è uno che stazionava alla pompa di benzina interrotto da usurai che gli prospettavano la possibilità di fare da esattore nei confronti di poveri tartassati. È mafia questa?».

Per Pignatone la strada appare in salita.

«Lui è un magistrato rispettabile che in passato ha dato grandi prove di equilibrio. Deve aver sentito, suppongo, il fascino di un'inchiesta col marchio della mafia nel cuore della Capitale, sicuro trampolino di lancio con conseguenze politiche e ampia popolarità».

Le ricadute politiche non sono mancate.

«L'inchiesta ha travolto la giunta di Marino e ha fatto decollare la campagna del M5S. La sindaca è una che gridava fuori la mafia dal Campidoglio, l'immagine di una capitale infetta è rimbalzata su siti e giornali internazionali».

Il caso Mafia Capitale va oltre il raccordo anulare?

«È un pezzo del caso Italia. Negli ultimi 25 anni i magistrati vogliono sostituire il ceto politico per realizzare la cosiddetta supplenza. Costituendo un blocco risanatore. Peccato che, come è emerso con la parabola di Di Pietro, de Magistris, Ingroia e altri, non solo le toghe non abbiano risanato alcunché ma abbiano persino iniettato nel paese nuovi vizi. La cosa sconvolgente però è un'altra».

A che cosa si riferisce?

«Alla ricezione di questo messaggio palingenetico.

Parlo dell'unanimità assoluta dei giornali, salvo rarissime eccezioni che sembrano dovute più a pazzie individuali. L'unanimità di giornalisti e commentatori ha spianato la strada a questo vulnus democratico, anziché censurarlo».

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