Il vescovo di Kiev e l'orrore: "Fossa comune con 500 morti. Mani legate e colpo in testa"

La testimonianza choc di monsignor Shevchuk: "Civili e bambini innocenti torturati e finiti con una pallottola"

Il vescovo di Kiev e l'orrore: "Fossa comune con 500 morti. Mani legate e colpo in testa"

In guerra l'orrore accomuna tutti, non guarda in guarda alle divise delle vittime. E ignora se quei morti la divisa ce l'hanno o no. Soldati (russi e ucraini) «gemellati» nel massacro, insieme con i cadaveri più innocenti di tutti: i corpi dilaniati dei civili. Vittime e carnefici, stesso destino insanguinato che il distopico «pacifismo delle armi» allungherà chissà fino a quando. Da una parte migliaia di soldati russi abbandonati senza sepoltura in neri sudari di plastica chiusi miseramente con la zip che ne cela il terribile contenuto; dall'altra parte fosse comuni con migliaia di cittadini ucraini torturati e uccisi solo perché colpevoli di essere dalla «parte sbagliata». Come se poi, in guerra, potesse mai esistesse una «parte giusta». I soldati ucraini caduti sul fronte, hanno almeno il conforto di un cimitero e di una croce, quelli russi marciscono invece in vagoni di treni scoperti qua e là o in altri luoghi con la stessa dignità di una discarica; del resto, cosa sono, in un conflitto bellico, i morti se non poveri «rifiuti»? Umani, certo, ma pur sempre «rifiuti». E ogni giorno i «rifiuti umani» aumentano, mentre la diplomazia di guerra - travestita da diplomazia di pace - seguita a giocare sporco. Sulla pelle dei «rifiuti», appunto. «In una fossa comune recentemente hanno scoperto 500 persone con le mani legate e con una pallottola nella testa. Vuol dire che sono state assassinate in un modo crudele, nello stesso modo in cui ai tempi di Stalin assassinarono gente innocente gettandola in fosse comuni», ha riferito l'arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, rendendo una testimonianza della situazione del suo Paese in video collegamento con il XXIII Convegno Nazionale per la Pastorale della Salute della Cei. «L'Ucraina sta vivendo un momento drammatico, con una guerra che ha comunque fatto cadere le maschere e mostrato tutti per quello che sono davvero», ha spiegato monsignor Shevchuk. Ma è davvero così? La guerra sta effettivamente «mostrando tutti per quello che sono»? La sensazione è invece che le «maschere» siano lungi dall'essere «cadute», anzi se ne stiano alzando sempre di più per nascondere realtà inconfessabili. La Chiesa sta cercando di rompere il business degli interessi economici, ma può poco dinanzi alla dittatura della geopolitica. Eppure, perfino in questo disastro, il primate della Chiesa greco-cattolica ucraina riesce - beato lui - a trovare motivi di speranza: «Non pensavo che sarei riuscito a sopravvivere perché la capitale in tre giorni era quasi circondata. L'esercito ucraino è stato capace di fermare i carri armati russi a 50 km dalla nostra cattedrale». Monsignor Shevchuk ha definito i 78 giorni di guerra, come «78 giorni di lacrime, di fiumi di sangue che scorrono sul terreno ucraino». Ha ripercorso le sue visite pastorali nella sua diocesi, ora «simile a un deserto», con città in gravissima distruzione come quella di Chernihiv dove i quartieri sono stati rasi al suolo e la scoperta di fosse comuni sempre più frequente. Durante la sessione di domande e risposte, l'arcivescovo ha sottolineato che in quella situazione di guerra «ci vuole la fede, perché per rimanere e dominare la tua stessa paura bisogna affidarsi completamente a Dio».

E ha ricordato che «ci sono 12 milioni di profughi, 5 milioni sono fuori dall'Ucraina, ma ci sono anche migliaia di persone che devono essere curate per le ferite di guerra, devono sottoporsi a cure lunghe e riabilitazione». Per i morti, invece, non resta che pregare.

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