Il viaggio tra gli orrori e il cuore dei bimbi uccisi

I militari eroi che ricompongono i cadaveri. Sangue e devastazione nei kibbutz, teatro della nuova Shoah

Il viaggio tra gli orrori e il cuore dei bimbi uccisi

Ieri, la cronista che credeva di aver capito la storia del terrorismo e dell'antisemitismo ha dovuto girare pagina: il male ha una sua nuova incarnazione, rivelata sabato 7 ottobre. Siamo dentro una guerra nuova, inusitata, e se non ci difendiamo ne saremo travolti come da uno tsunami. Sull'onda infuocata dell'antisemitismo Hitler distrusse quasi tutto il mondo. Ma durante la Shoah i nazisti nascondevano lo sterminio, ci sono voluti anni per individuarne dimensione e crudeltà. I terroristi di Hamas si sono messi sulla fronte le telecamere, hanno filmato il loro genocidio gestito con fantasia ad personam bambino per bambino, ragazza per ragazza, per poi postarlo su Tik Tok, Instagram, Facebook. Hanno documentato come davano fuoco ai bimbi davanti agli occhi delle madri e viceversa, come violentavano le ragazze e poi le ammazzavano, come stupravano bambine e vecchie in pigiama e sventravano le donne incinte, come hanno tagliato la testa a centinaia di persone e non contenti poi hanno usato le armi per farle a pezzi e strappargli gli occhi.

Ieri, la visita di vari gironi dell'inferno ha avuto la sua voragine più profonda nella base militare di Shura, un struttura all'aria aperta, in cui quello che si scorge arrivando sono file di container bianchi numerati e alcune tende semichiuse in cui si lavora in silenzio. Entrano ed escono militari indaffarati e uno di loro, sotto il container Allu 17024, ci spiega: «In questi frigoriferi sono accumulati centinaia di corpi ancora non identificati a causa dei roghi, delle torture, delle mutilazioni. Parlate piano, non fate rumore» chiede il colonnello Chaim Wisberg al gruppo di parlamentari europei guidati da Elmet, l'organizzazione che guida la loro missione di solidarietà. «Abbiamo tre modi di identificare i corpi. Il primo è quello diretto, ormai impraticabile, il secondo con l'esame della dentatura, il terzo col Dna». I resti sono stati trovati nei posti più disparati e poi amorosamente suddivisi in sacchi con numeri. Si cerca di rimettere insieme parti che Hamas ha tagliato: teste, genitali, braccia, piedi, mani. «I cadaveri delle donne violentate arrivano pieni di fratture. Prima di capire che un troncone era di una donna e del suo bimbo bruciati e seviziati insieme, c'è voluto molto studio». Vediamo nei container sacchi a centinaia, sistemati per grandezza. I volontari sono quieti e gentili, tutti in divisa. Sheryl spiega: «Cerchiamo la dignità, la memoria di quei poveri resti, in un orecchino da restituire alla famiglia, nelle unghie curate di qualche ragazza di cui non rimane quasi nient'altro... Sistemiamo quel che c'è, con amore. I parenti che vogliono seppellire i loro cari, qui entrano solo coi risultati certi del Dna».

Per la strada verso Sud, ogni cespuglio parla, racconta la mostruosa sorpresa di sabato 7. L'esercito è ormai schierato, ci avvertono mentre siamo diretti a Kfar Aza, off limits per una sospetta incursione terrorista; facciamo un giro largo per arrivare a Be'eri, il teatro della mattanza, che confina con Reim, il kibbutz della festa in cui sono stati ammazzati almeno 260 ragazzi e altri sono stati rapiti. A Reim, la grande tenda bianca stracciata, le masserizie, gli stracci: i fossi erano pieni di ragazzi uccisi. L'erba su cui sono fuggiti invano ha il colore del tradimento, e il giallo è più giallo, il nero del bruciato definitivo. A Be'eri il comandante Golan, che in Turchia ha salvato 19 persone dopo l'ultimo terremoto, un esempio tipico dell'umanità di quei kibbutz liberali, amici degli arabi, ci mostra le case bruciate con le famiglie intere dentro, racconta che ha trovato il corpo carbonizzato di un suo agente e ha raccolto il telefono perché la scritta sullo schermo diceva «Amore mio», e ha detto alla moglie dell'ucciso che il suo caro non c'era più. «Non volevo che aspettasse settimane l'identificazione». Le trincee in cui avevano tentato di nascondersi i fuggitivi della festa sono diventate fosse comuni. Mentre parliamo si spara forte intorno. Non ti preoccupare, dice, sono spari nostri. Eitan Dana, il capo operazioni locale, restituisce il senso della Israele che ha lottato come un leone sorpreso e ferito: il suo migliore amico, comandante Elhanan e suo fratello, con la jeep sparando all'impazzata avanti e indietro ha salvato decine di persone e poi è stato ucciso. È solo un esempio: la gente si è sacrificata senza risparmio, ha difeso col suo corpo famiglia e sconosciuti.

I cittadini di Gaza ancora oggi, si afferma, tengono nelle loro case private gli ostaggi. Ecco, per loro batte il cuore di Israele: un gruppo di genitori, figli e nipoti dignitoso, calmo, con le foto strette al petto, ci incontrano per chiedere che si faccia tutto, qualunque cosa, per mettere la liberazione dei loro cari al primo posto. Ci raccontano il loro dolore impossibile. Keren disperata, con la foto della sua Mia che abbiamo visto ferita in tv; Shelly Shem Tov che come ultima notizia del figlio 22enne Omer ha l'immagine del rapimento sul pickup; Dalit prega per la zia, lo zio, il cugino, tutta la famiglia Katzir rapita; la figlia del 79enne Haim Peri dice: «Presto. Non abbiamo tempo!».

Prima di lasciare Be'eri, in un asilo nido letteralmente inondato di sangue, un lago fra i balocchi, ho chiesto il permesso di raccogliere un foglio con un cuore di plastilina che fanno i bambini.

Il comandante mi ha detto «lo tenga come pegno, l'hanno prossimo qui sarà di nuovo pieno di bambini che restituiranno la vita a questo kibbutz, alla scuola, a quel bambino». Per questo però, bisogna sconfiggere i mostri.

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