Quando hanno lasciato l'ambasciata di Kinshasa Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci sapevano bene d'esser diretti verso uno dei luoghi più maledetti d'Africa. Nel 1925, quando i belgi lo trasformarono nel primo parco protetto del continente, il Virunga Park era un paradiso incontaminato, regno di elefanti e gorilla di montagna. Da un quarto di secolo è un inferno.
La discesa nelle tenebre inizia nel 1994. Quell'estate migliaia di Interahamwe, i miliziani hutu responsabili del genocidio di mezzo milione di tutsi, fuggono dal Ruanda. Inseguiti dai vincitori tutsi attraversano la frontiera e s'insediano con centinaia di migliaia di profughi nella regione del Kivu. Da quel momento i massacratori e loro eredi, organizzati sotto la sigla delle Fdlr (Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda) dettano legge. In breve la guerra e i suoi orrori si diffondono in tutta la regione. E il Virunga Park con i suoi 7.800 chilometri quadrati di foresta pluviale, paludi e savana ne diventa uno degli epicentri. Qui l'Fdlr e decine di altre milizie che gli si affiancano, o lo combattono, si finanziano con il contrabbando, il bracconaggio, la vendita clandestina di legname e la produzione illegale di carbon fossile. A fermarli dovrebbero pensarci 700 ranger finanziati dal Belgio e addestrati dalle sue forze speciali. Ma in pochi anni le bande locali ne hanno fatto fuori più di 200. Dodici sono stati massacrati in un'imboscata lo scorso aprile. Altri cinque sono caduti il 10 gennaio in un attacco consumatosi a poca distanza da quello costato la vita ai nostri due connazionali.
L'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci lo sapevano bene. Ed erano al corrente dello stillicidio pressoché quotidiano di uccisioni, attacchi ai civili e sequestri a scopo di riscatto. Quanto bastava per intuire che il convoglio del World Food Programme su cui viaggiavano non offriva il massimo delle garanzie. Sprovvisto di mezzi blindati e affidato ai poco motivati, e ancor meno efficienti, Caschi Blu della missione Monusco, quel convoglio rappresentava più un ghiotto invito che non una cornice di sicurezza. Ma il nostro ambasciatore, innamorato del Continente Nero e dalle sue contraddizioni, era anche consapevole che in Africa solo un pizzico di rischio e d'incoscienza appagano la curiosità e garantiscono comprensione e conoscenza.
Certo addentrarsi con dei vistosi ma poco difesi fuoristrada in un territorio dove, oltre all'Fdlr, operano un gruppuscolo legato all'Isis e ben 130 bande armate guidate da delinquenti assetati di notorietà e denaro, significava esporsi innanzitutto al rischio sequestro. Difficile dire se gli attaccanti sapessero della presenza di Attanasio a bordo del convoglio. Di certo, da quelle parti, la corruzione dilagante e i non infrequenti rapporti d'affari tra alti ufficiali dell'esercito congolese e capi banda locali non sono garanzia di riservatezza. Anche per questo, forse, esercito e polizia locali non erano stati informati della missione. Il rapimento di uno straniero scortato rappresenta, invece, la certezza di un affare da centinaia di migliaia di dollari. Un bottino ben più appetibile dei miserabili riscatti da poche centinaia di dollari estorti alle famiglie locali grazie alla pratica quotidiana dei rapimenti.
Ma tra le ipotesi che compongono lo scenario della tragedia non manca neppure quella di un attacco con finalità terroristiche.
Dal 2015 l'Fda (Forze Democratiche Alleate), una formazione islamista tracimata a fine anni '90 dal confine ugandese, ha rivendicato ben cinque attacchi a nome dell'Isis sostenendo di lottare per l'imposizione dello Stato Islamico nel Nord del Kivu. Ed era stato proprio l'Fda a firmare ai primi di gennaio il massacro di 22 civili abbattuti a colpi di machete e kalashnikov durante un'incursione nella provincia di Beni.
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