Davanti alla toilette della Camera, adiacente al corridoio dei passi perduti, Enrico Borghi, componente del Copasir, si improvvisa attore e, imitando il linguaggio da Magna Grecia di Ciriaco De Mita, si lancia in una scenetta che la dice lunga sui limiti del quadro politico frutto di questa crisi vissuta in una girandola di rancori. «Tu non capisci - dice parodiando l'accento irpino -, la politica è un'altra cosa. La politica non si fa con i numeri. L'ultimo che fece la politica dei numeri fu Arturo Parisi con Prodi e tutti sanno come finì. Sento che a Palazzo Chigi parlano di Goria, ma se ricordo bene l'epilogo di quella vicenda fu proprio il cambio di inquilino a Palazzo Chigi». Questo è il Pd pessimista, che non immagina un lungo orizzonte per questo governo.
L'altro Pd è quello di marca ex Pci, ex Pds, ex Ds che presidia i posti di Potere del Conte bis. Osserva Francesco Boccia, ministro per le Regioni: «Intanto partiamo anche se forse al Senato non avremo la maggioranza assoluta. Quella la centreremo nella seconda fase. Se duriamo poco? No, perché abbiamo legato con triplo filo i tre partiti che sono rimasti - Pd, 5stelle e Leu e con la legge proporzionale cercheremo di liberare i moderati dal giogo dei sovranisti». Sarebbe stato più semplice farlo confermando la maggioranza di prima, o no? Impossibile: tra quest'anima post-comunista e il renzismo ci sono solo rancori e intolleranza. «Noi - racconta la ministra per le Infrastrutture, De Micheli - a Renzi avevamo offerto di tutto. Pure i posti. Anche mezz'ora prima che tagliasse i ponti, ma lui non ha la sindrome dello scorpione, semmai quella del Pivot. Quello che determina il mondo. E allora come fai ad andare d'accordo con uno così?!». Questi sono i diversi punti di vista che albergano nel Pd, cioè nel partito che dovrebbe essere l'architrave di questo governo che, se le previsioni della vigilia saranno confermate sui numeri del Senato, nasce nei fatti come un governo di minoranza. Un esecutivo che sprizza fragilità da tutti i pori, che rischia di trasformarsi in «un videogame» giallorosso ad alto rischio. Se il Conte bis prima versione ha fatto poco e niente, questo - privato della componente più riformista - rischia di far ancor meno. Un governo «virtuale», con una maggioranza che è sotto nelle commissioni parlamentari più nevralgiche, a cominciare dagli Affari istituzionali. E che ha un premier che colleziona «gaffe». Ieri nella sua relazione ha messo un alleato storico dell'Italia come gli Stati Uniti, sullo stesso piano della Cina (D'Alema docet). «A Washington - rimarca Valentino Valentini, il consigliere del Cav - non l'avranno presa bene». C'è voluto l'intervento dei piddini preoccupati per come avrebbero potuto prenderla gli americani, per fargli cambiare impostazione nella replica. «Gli yankee della maggioranza - ha confidato lo stesso Borghi - colpiscono ancora». In fondo il premier è uno Zelig della poltrona, sarebbe pronto a guidare qualsiasi governo pur di restare a Palazzo Chigi. Un Conte La Qualunque, parente prossimo del Cetto interpretato da Antonio Albanese. La parola chiave rivolta ieri ai deputati è stata una preghiera che stona sulla bocca di un premier che in questo dramma dovrebbe dare speranza: «aiutateci». Eppoi, lui, l'unico premier di un governo populista, si è scoperto ora pure europeista e nel caleidoscopio che dovrebbe essere il nuovo gruppo dei responsabili ci ha ficcato di tutto, dagli ex grillini, ai democristiani, dai socialisti ai popolari. Tutto va bene, insomma, l'importante è che il premier lo faccia lui. Con uno così fa bene Zingaretti a drammatizzare i toni, a vedere un futuro buio. Perché alla fine potrebbe scoprire che il salvagente Conte, trovato per restare a galla, potrebbe rivelarsi nelle prossime settimane o mesi una zavorra per finire a fondo. Infatti, se parli con il mite ministro della Sanità, Speranza, sulle prospettive, lo vedi dubbioso: «Non so se la maggioranza si allargherà».
Certo Conte tra lusinghe e offerte le sta provando tutte. Ha messo nel mirino Forza Italia. Ma sulla carta, non dico per ideali, ma almeno per pudore è difficile immaginare che qualcuno che proviene dal partito del Cav, possa votare per un governo che al ministero della Giustizia ha il grillino Bonafede, quello che ha abolito la prescrizione. Vale per la Polverini - che ieri ha votato la fiducia - e per chiunque altro. A quel punto la politica non c'entra più, si è solo dei mercenari. Anzi, visto che senza Renzi l'asse del governo si sposta più a sinistra, lo si è sempre stati. Un po' come Mastella che si mette all'asta da vent'anni. «Noi di Forza Italia - è la tesi di Gabriella Giammanco - non potremmo mai sostenere un governo che ha promesso tante riforme e non ne ha fatta una».
Discorso simile per l'altro orto in cui Conte, il giardiniere, vuole procurarsi il raccolto, cioè gli ex renziani. Anche lì immaginare di appoggiare questo governo dopo che il premier li ha maltrattati e presi a schiaffi, non è certo da eroi. Anzi, Conte ha fatto di peggio, gli ha dato molto di quello che avevano richiesto, ma poi gli ha detto: «voi restate fuori». O meglio li accoglie solo se accettano di passare sotto le forche caudine. «Quello - racconta Marco Di Maio - ci vuole uno alla volta senza Renzi. Ci hanno fatto promesse mirabolanti. Ma io ho detto di no. Oggi sarebbe come disertare».
Appunto, useranno la musica del Potere e una poltrona che, però, alla fine non potrebbero neppure dare. Con la riduzione dei parlamentari nelle liste elettorali non saranno garantiti neppure quelli che nella maggioranza di governo già ci sono. Si tratta di un'operazione a perdere, che può accalappiare solo gli allocchi. Come quei parlamentari che hanno ancora paura delle elezioni anticipate, gente che dopo aver trascorso legislature e legislature in Parlamento, i meccanismi della politica ancora non li capisce. Spiega Matteo Orfini, piddino che viene da una scuola di partito dove certe cose le insegnavano: «La prospettiva? Parolone. Questo è un gioco fatto tutto con la pistola delle elezioni caricata ad acqua». Il paradosso è che proprio con la nascita di un governicchio, si rischia di dare vita ad un equilibrio politico che durerà solo pochi mesi. «E i governicchi - sussura Renzi - se non vengono fermati in tempo portano alle elezioni». Appunto, come dice De Mita alias Borghi, sono i rischi della «politica dei numeri».
E in fondo ha ragione il Cav quando ieri, al vertice della maggioranza, per dare un senso a questa legislatura, ha avvertito: «Se il governo al Senato non raggiungerà i 161 voti, cioè la maggioranza assoluta, la parola passi al Capo dello Stato».
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