Per la serie «meglio vedere il bicchiere mezzo pieno», i mercati hanno ieri brindato al dato dell'inflazione Usa di luglio, salita al 3,2% tendenziale. È un livello appena al di sotto delle attese (+3,3%), ma tanto è bastato per alimentare la spinta rialzista dei listini (+0,5% Wall Street a un'ora dalla chiusura; +0,94% Milano, + 0,77% lo Stoxx600). Completamente trascurato il fatto, peraltro non marginale, che i prezzi al consumo sono saliti su base mensile dello 0,2% e risultano quindi più alti rispetto al mese prima (+3%). La tendenza deflazionistica che si era andata consolidando nel corso degli ultimi mesi ha subito dunque uno stop.
Già il segnale di una possibile inversione di rotta dovrebbe indurre alla cautela. Non fosse altro per il fatto che l'andamento del Consumer price index (Cpi) non sposta di un millimetro la postura guardinga di Jerome Powell, numero uno della Federal Reserve, il cui occhio si mantiene vigile sull'indicatore prediletto, quell'inflazione core legata ai servizi che con la sgasata del mese scorso si è riportata al 4%. Benché il board di Eccles Building sia sostanzialmente spaccato sull'opportunità di allungare la teoria di rialzi dei tassi d'interesse (ben 17 dal dicembre 2022), c'è una chiara convergenza sulla necessità di mantenerli a lungo in modalità restrittiva. E un motivo c'è. Anzi, più di uno.
Il processo di raffreddamento dell'inflazione dai picchi da vertigine (9,1%) del giugno dello scorso anno è solo stato in parte determinato dall'aver riproposto la stessa cura choc che l'allora capo della Fed, Paul Volcker, impose negli anni '80 agli Stati Uniti intossicati dal carovita. Una faccia feroce che sta probabilmente impattando sui salari, aumentati dello 0,3% in luglio e dell'1,1% rispetto a un anno fa. Una dinamica che lascia presagire una contrazione già a partire da questo mese.
Per l'istituto di Washington è una buona cosa, poiché attenua i timori legati all'innesco della famigerata spirale prezzi-salari. Buste paga meno pesanti rischiano però di non essere di conforto. A stemperare l'inflazione è stata infatti la discesa dei prezzi delle materie prime, cioè proprio le principali responsabili del moto inflazionistico ascensionale causato dallo scoppio della guerra fra Ucraina e Russia. La risalita delle quotazioni del petrolio, sulla spinta della politica di contenimento produttivo dell'Opec+ (il Cartello allargato anche a Mosca), in scia a una domanda che resta forte e a una liquidità abbondante, è la spia più visibile di quello che presto potrebbe essere un cambio di spartito. Anche perché le tensioni non riguardano solo i corsi del greggio, ma si stanno allargando a macchia d'olio fino a contagiare i prezzi dei beni alimentari. La risalita dai minimi dell'indice Crb Industrials che raggruppa materie prime non negoziate in futures come sego, juta e gomma, è un altro termometro che misura tensioni crescenti.
Ciò che i mercati sembrano ignorare è il contributo dato dalla Cina al processo disinflazionistico nel resto del mondo.
La lenta ripresa post-Covid ha trascinato l'ex Impero Celeste in deflazione (-0,3% i prezzi al consumo lo scorso mese), ma la risalita in luglio dei prezzi alla produzione è un segnale che gli stimoli messi in campo da Pechino stanno forse cominciando ad avere effetto. E se la domanda cinese riparte, non passerà molto tempo prima che l'inflazione brutta, sporca e cattiva torni a bussare alle porte dell'Occidente.
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