Non si può essere bambini in Liberia. Lo capisci già da piccolo se vivi con la nonna in una baracca di lamiere vicina alle paludi del porto. Senza luce, senza acqua, senza speranza. Ricco solo di fratelli, tredici fratelli. E questo se sei un bambino fortunato. Perché se sei l'ultimo, l'ultimo in fondo a un'aula che non c'è, fino a ieri il destino ti metteva nelle manine un kalashnikov, ti faceva diventare un bambino soldato, che sparava a gente che poteva essere il tuo papà. O un bambino come te. In Liberia cinque bambini su dieci non sanno leggere e scrivere e otto di quei dieci un lavoro vero da grandi non l'avranno mai. Sempre che diventi grande perché qui se ti va bene campi fino a 40 anni. Hai una via di fuga. Aggrapparti a un pallone e volare via. Tirargli un calcio, più forte che puoi, e sperare che ti porti il più lontano possibile. George Weah in quel pallone ci vede ancora il bambino che era quarant'anni fa quando tirò quel calcio che lo ha fatto volare così lontano da riportarlo qui: futuro presidente, forse, della sua Liberia, dopo 12 anni di presidenza di Ellen Johnson-Sirleaf, premio Nobel per la pace e prima donna alla guida di un Paese africano. Venti candidati, tutti uomini tranne una, MacDella Cooper, la sua ex moglie. Paolo e Maldini e Marcel Desailly, milanisti come lui, si sono già congratulati sui social, ma è presto per dirlo. E le cose sono cambiate da quando George viveva con la nonna. E quasi tutte in peggio.
In Liberia non si sa neanche quanti siano i vivi, tre milioni o quattro, né i morti, uccisi da quattordici anni di guerra civile e dalla crisi economica scatenata dall'epidemia di Ebola di tre anni fa. Si sa che la maggioranza è donna, un esercito di vedove di guerra, e ragazzi al primo voto. Saranno loro a decidere. In un Paese piagato da clientelismo e nepotismo la carica pubblica è più calcolo che cuore: se un liberiano guadagna mediamente meno di due dollari al giorno, i parlamentari portano a casa uno stipendio annuo di 200.000 dollari, il doppio del salario di un deputato in Danimarca. Anche se non è il caso di Weah. George Dabliù aveva mille ragioni per tirarsi indietro: un'altra vita in Florida, fama da spendere, soldi a palate, un'esistenza da vagabondo di lusso. Ma non ne ha cercata nemmeno una. Anche da calciatore era così: ha sempre cercato la soluzione più difficile, ha sempre tenuto la testa alta. Il Weah che pregava Dio a mani aperte al centro del campo e poi passeggiava nudo negli spot dei deodoranti, che cantava i rap e sollevava al cielo, unico africano, il Pallone d'Oro, ha dribblato sempre tutti ma non è riuscito mai a sfuggire al dolore della sua gente. Ha pagato di tasca sua borse di studio per studenti, ha spedito sacchi di riso alla suo popolo, ha raggiunto le basi dei ribelli per convincerli a deporre i fucili in cambio di palloni. Lo hanno minacciato di morte, gli hanno bruciato la casa, violentato due cugine, lui che si faceva timido davanti a Van Basten adesso non ha paura di guardare negli occhi il generale Charles Taylor, il dittatore deposto quattordici anni fa, condannato per crimini contro l'umanità, che dalla prigione di massima sicurezza, di Durham, nord est dell'Inghilterra, cerca ancora di imporre la sua legge, promettendo di tornare al potere, istigando i suoi a «portare avanti la causa della rivoluzione». Parole pesanti che hanno messo non poco in imbarazzo George, «l'uomo del cambiamento», visto che la sua vice è Jewel Howard Taylor, l'ex moglie del macellaio di Monrovia.
Ma i liberiani lo considerano sempre un dio: metà di loro ha meno di trent'anni, più di un quarto arriva appena a 23, George è la Liberia che tutti vorrebbero essere: ricca, famosa, buona. Dice: «Senza calcio sarei diventato anch'io un bambino soldato». Con George W. forse si potrà provare ad essere bambini e basta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.