«Prima calcola il costo», ovvero prima di un'avventura militare valutane le conseguenze. Sun Tzu, il generale cinese autore de «L'arte della guerra», lo scriveva 2.500 anni fa. E fino allo scorso 24 febbraio scorso la maggior parte di noi avrebbe scommesso su quella regola. Poi, però, si è visto che può anche andare diversamente. Dunque anche nel prevedere le prossime mosse di Pechino a Taiwan è meglio non fermarsi alla logica. Ma siamo condannati alla razionalità e quindi immaginiamo che nulla possa succedere fino al Congresso del Partito Comunista del prossimo novembre. Solo arrivando a quella scadenza senza errori il presidente cinese Xi Jinping potrà aggiudicarsi un terzo mandato e conseguire l'obbiettivo fissato fin dal Congresso del 2018 quando fece cadere il vincolo costituzionale dei due mandati imposto da Deng Xiaoping.
Nei disegni di Xi Jinping quel terzo mandato è indispensabile per passare alla storia come un leader del rango di Mao Tsetung e soddisfare la sfrenata ambizione che, sempre nel Congresso del 2018, lo spinse a pretendere l'inserimento in Costituzione del proprio pensiero. Ma per conseguire l'immortalità storico-politica Xi Jinping deve prima farsi perdonare qualche recente peccato. Tra questi, non solo le detestate imposizioni ordinate nel mal riuscito tentativo d'arginare il Covid, ma anche la brusca frenata nella crescita economica del Dragone. Una frenata imputabile non solo alla pandemia, ma anche alle misure draconiane con cui ha ridimensionato, intimidito e messo all'angolo l'emergente classe imprenditoriale a cominciare da Jack Ba, deposto signore di Ali Baba. Ancor più perniciosa della sua diffidenza è stata però l'incapacità di frenare la bolla finanziaria che ha fatto crollare il mercato immobiliare cinese. Proprio in virtù di questi errori Xi Jinping si è ben guardato dall'impedire concretamente l'atterraggio di Nancy Pelosi a Taiwan e ha preferito evitare uno scontro con gli Stati Uniti dalle conseguenze imponderabili. E nel nome della stessa prudenza ha ordinato che la rappresaglia a colpi di manovre militari e lancio di missili nello Stretto iniziasse solo dopo la ripartenza della Pelosi.
Ora però bisogna capire quel che succederà quando Xi Jinping dovrà scegliere le imprese con cui venir ricordato nei libri di storia. L'invasione di Taiwan, promessa sin dal primo mandato nel 2013, è la più scontata. Ma uno scontro militare con gli Usa non è, nonostante lo sforzo profuso da Xi Jinping per ammodernare le proprie forze armate, la strada più agevole. Nel 2020 le analisi del generale di Pechino Zhang Shaozhong posizionavano la potenza militare di Pechino al quinto posto dietro Stati Uniti, Russia, Francia e Gran Bretagna concludendo che solo nel 2049 la Cina comunista avrebbe potuto ambire al ruolo di seconda potenza militare dopo gli Stati Uniti. Un'analisi condivisa dagli strateghi occidentali che sottolineano come negli ultimi 30 anni la spesa militare degli Usa abbia superato i 19mila miliardi di dollari contro gli appena 3mila della Cina. Per non parlare dell'ineguagliabile esperienza conseguita dagli Usa combattendo in teatri come Somalia, ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Siria e Libia. Dunque al posto della strada delle armi Xi Jinping potrebbe scegliere la strada del consenso più o meno imposto. Non a caso lo scorso 2 agosto si è rivolto al Partito ricordando la necessità di «conquistare il cuore e la mente dei cinesi di Hong Kong, Macao e Taiwan».
Un consiglio in cui qualcuno intravvede il tentativo d'influenzare la partita politica di Taiwan mettendo fine all'egemonia del partito Progressista democratico di Taiwan, strenuo sostenitore dell'indipendenza di Pechino, e riportando al potere quel Kuomintang che già nel 1992 condivise con i vecchi nemici comunisti il cosiddetto «principio di Una Cina».
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