Yara, ergastolo per Bossetti. E lui rimane impassibile

Dopo 10 ore di camera di consiglio i giudici decidono. Carcere a vita per il muratore e tolta la patria potestà

Yara, ergastolo per Bossetti. E lui rimane impassibile

È il giorno più lungo. Quello del «giudizio».

Due anni e 15 giorni di galera dopo, alle 8.45 del mattino, Massimo Bossetti, l'uomo accusato di aver assassinato in una gelida sera del novembre 2010 Yara Gambirasio, arriva scortato dalla polizia penitenziaria. La moglie Marita, lo raggiunge cinque minuti più tardi. Gli è sempre stata accanto, mai «mollato» a dispetto di tutto e tutti, criticata, sospettata, screditata. Indossa un abito jeans, in viso un filo di trucco per stemperare la tensione. La paura. Lo sanno bene, lei e il padre dei suoi tre figli, che questo processo durato un anno è finito. E non ci saranno vie di mezzo: innocente o colpevole; libertà o ergastolo. Vincerà l'accusa, con quel Dna forse «discutibile» ma pesante prova regina contro il muratore di Mapello? O prevarranno i dubbi, le incertezze a cominciare da un movente che non è apparso una certezza, i semplici indizi, peraltro sempre confutati dalla difesa, e le tante suggestioni?

Dovevano decidere 8 giudici, due togati e sei popolari. Alla fine dopo oltre dieci ore di camera di consiglio ecco il verdetto, quello che in fondo si prevedeva. Il più pesante: carcere a vita. Bossetti aveva mirato al loro cuore, giocando le carte della disperazione, quelle del sentimento ma anche dell'oggettività. Sarebbe stata l'ultima volta che poteva tentare di farsi credere. E per essere sicuro di non sbagliare, di non cedere a tensione ed emozioni, aveva letto.

Ringraziando la presidente della corte d'Assise, Antonella Bertoja «di cuore per l'attenzione e per avermi ascoltato». E ripetendo, come ha sempre fatto, la sua verità. «Sarò anche uno stupido, un ignorantone, un cretino ma non sono un assassino. Questo sia chiaro a tutti», l'esordio. «Accetterò il verdetto qualunque esso sia. Una condanna, però, sarebbe il più grave errore giudiziario di questo secolo».

L'accusa, incarnata dalla pm Letizia Ruggeri, ci aveva messo addirittura due giorni per convincere la giuria della colpevolezza di questo carpentiere un po' narciso e per molti conoscenti un po' «contafrottole». Si rifletteva l'immagine di un bugiardo seriale, un po' come faceva al lavoro raccontando di essere malato gravemente. O come quando diceva di essere mentre in realta gironzolava nei solarium. L'accusa, con l'inchiesta più costosa della storia d'Italia, aveva svelato segreti e menzogne di famiglia. Quelle per esempio della madre Ester Arzuffi, che seppure smentita da ripetute prove del Dna, continua ancora a sostenere che i figli del suo (da poco) defunto marito non fossero frutto di un amore clandestino. O le presunte aggressioni denunciate dalla sorella gemella di Massimo, ma che stando agli investigatori non sarebbero mai avvenute. Insomma, non prove ma tasselli capaci di rendere poco credibili i protagonisti. Anche Massimo anche ieri negava la validità del test genetico che lo ha incastrato, quelle macchioline trovate sugli slip della vittima tredicenne. «È un errore... non mi è stata data la possibilità di ripetere l'esame del Dna e dimostrare che quella parziale traccia non mi appartiene?». «Se fossi l'assassino sarei un pazzo a chiedere di ripetere il test.

Un colpevole non lo chiederebbe mai perché potrebbe eliminare tutti i dubbi e schiacciarmi alle mie responsabilità. E invece io vi supplico, vi imploro di fare questa verifica».

Non è bastato. Gli hanno persino tolto la patria potestà. Ma lui è rimasto impassibile, in attesa dell'Appello.

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