Zaia vuole rimanere Doge: "Io resto il capo dei veneti"

Il governatore superstar è il vero vincitore delle urne ma smentisce ogni sua ambizione per palazzo Chigi

Zaia vuole rimanere Doge: "Io resto il capo dei veneti"

È il grande giorno di Luca Zaia. È lui l'indiscusso trionfatore della partita dei referendum autonomistici, l'uomo che adesso - suo malgrado - è sulla bocca di tutti come possibile candidato per Palazzo Chigi e come punto di congiunzione tra Lega e Forza Italia, qualora il Carroccio dovesse prendere più voti del partito azzurro.

Il governatore veneto a poche ore dalla fine dello spoglio riunisce la Giunta in sessione straordinaria e delibera all'unanimità un disegno di legge per chiedere che il Veneto diventi una regione a Statuto Speciale. Ma anche in questa occasione in ogni frase, in ogni dichiarazione Zaia ci tiene a rendere sempre più saldo il suo ancoraggio esclusivo alla causa veneta. Lo fa anche nel botta e risposta con Maurizio Martina, facendo capire che questo referendum restituisce alla sua regione e al suo presidente uno status e una identità rafforzata ed è necessario salire di livello nella scelta degli interlocutori. «Il nostro interlocutore è Gentiloni, io resto fermo al fatto che Martina è ministro dell'Agricoltura. La Costituzione è chiara e se il governo dichiara che 2,4 milioni di cittadini hanno perso solo il loro tempo lo vengano a dire nel territorio. Se Martina cerca la rissa qui non la troverà. La politica è uscita da questa partita, adesso tocca al popolo».

A chi fa notare al governatore la dichiarazione di Cacciari, «Zaia pensi a candidarsi a premier», risponde che «non esiste, soprattutto davanti a un voto come questo bisogna stare qui in Veneto e fare presidio». Anzi a Mattino Cinque regala una immagine scaccia-tentazioni sul suo futuro prossimo venturo. «Ho deciso di attaccarmi un cartello al collo e scrivere non lo farò mai. Mi occupo del Veneto e voglio restare in Veneto». Per Zaia, c'è piena «collaborazione nella trattativa con il governo, ma la Lombardia avrà delle sue istanze e peculiarità differenti a quelle del Veneto quando andremo al vedo».

Sicuramente Zaia ora si trova di fronte a un bivio importante. C'è chi racconta che in piena trance agonistica, mano a mano che lo spoglio andava avanti avesse addirittura auspicato una affluenza del 70%. Poi i suoi consiglieri gli hanno fatto notare che stava prendendo il doppio dei voti presi alle scorse elezioni regionali e si trovava di fronte a un vero plebiscito. Di certo Zaia non gradisce, anzi è decisamente infastidito dal diluvio di domande e indiscrezioni su un suo futuro «nazionale». In queste ore continua a ribadire a tutti che lui vuole essere «il capo dei veneti». Anche perché - è il suo ragionamento - questa trasformazione in player nazionale rischia di essere un autogol perché gli esponenti del governo che dovranno trattare con lui potrebbero pensare che voglia fargli le scarpe e trasferirsi a palazzo Chigi.

Nella mente di Zaia, invece, c'è l'idea di trovarsi a trattare tra qualche mese con un governo di centrodestra e di poter mettere sul tavolo gli oltre 2 milioni e 300mila voti ricevuti dai suoi corregionali. Il governatore cita Einaudi e Don Sturzo, ma guarda al Trentino Alto Adige, per trattenere i 9/10 delle tasse sul territorio. Zaia, insomma, è geloso del suo profilo da Cincinnato veneto, grazie anche a uno stile votato all'understatement, ma il suo «giardino» è la sua regione da trasformare in soggetto autonomo, forte anche delle sue radici contadine e della sua laurea in scienze della produzione animale alla facoltà di veterinaria che lo rende ancor di più uomo profondamente legato alla terra. Zaia ci tiene a far notare il suo rispetto per le gerarchie e per la leadership del suo segretario, da buon leghista old style. È chiaro, però, che la sua scalata inizia a fare paura, dentro e fuori il Carroccio.

E inevitabilmente ogni sua mossa sarà letta attraverso la lente della proiezione nazionale (Berlusconi già nel febbraio scorso avanzò la sua candidatura come possibile candidato premier). Con un primo effetto molto concreto nella trattativa sui collegi elettorali sui quali ora la Lega è pronta ad alzare la posta e le richieste, cercando di passare all'incasso.

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