Perdoni il lettore se vengono brevemente riportati i termini di una contesa che si è accesa a sinistra, precisamente nel Partito democratico (in seguito: Pd) tra la giornalista del quotidiano “laRepubblica” Concita De Gregorio e il segretario nazionale Nicola Zingaretti. Ma la contesa è utile a un certo ragionamento. Il 29 gennaio scorso esce un articolo della De Gregorio sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Il titolo non lascia spazio a immaginazione: “Crisi di governo, la sinistra timida nel Pd pilotato dagli eredi della Dc”. È una dura requisitoria contro il massimo dirigente del più importante partito della sinistra italiana. Con passaggi tipo questo: “Nicola Zingaretti lascia dietro di sé l’eco malinconica di un vuoto. Come un ologramma, sorride e svanisce. Una vita da mediano, a recuperar palloni, il segretario del Pd è quanto di meglio la tradizione comunista abbia oggi da offrire”. Zingaretti decide di rispondere il giorno dopo, 30 gennaio, pubblicando in tarda mattinata un post sulla sua pagina facebook: “Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo.... Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta”. Apriti cielo! Il post riceve oltre 5mila commenti e viene condiviso da 1.500 utenti. E spacca la platea piddina tra sostenitori del segretario e chi invece difende la De Gregorio, arrivando in qualche caso a puntare il dito contro il maschilismo di Zingaretti. Dopo poche ore, nel primo pomeriggio arriva la risposta della giornalista sempre a mezzo facebook: “Faccio fatica a credere che il segretario del Pd, tuttora il più grande partito della sinistra italiana, abbia scritto parole in cui mostra di non percepire la differenza fra chi fa politica e chi fa giornalismo. È semplice. Chi fa politica governa, chi fa giornalismo racconta l’azione di chi governa”.
Benzina sul fuoco e infatti a quel punto l’incendio divampa a sinistra. Perché nel merito politico, per quel che conta la querelle, Zingaretti ha ragione? Perché il Pd non ha bisogno di dannarsi l’anima come gli altri partiti nel vortice di questa crisi? Nella placida calma del suo leader non c’è lo smarrimento di Di Maio e del Movimento 5 Stelle per la caduta impietosa di tutte le parole d’ordine e dei gridi di battaglia delle trionfali cavalcate elettorali del 2013 e del 2018. Né si trova traccia dalle parti del presidente di Regione Lazio il movimentismo rabbioso e inquieto di Matteo Renzi alla testa della nave corsara di Italia Viva. E nemmeno i lampi di politica parlamentare “sangre y mierda” dei mitici Costruttori, di un Mastella o di un Tabacci per capirci. Al Pd non servono questi patemi d’animo. Diventato segretario del Pd con le primarie del 3 marzo 2018, Zingaretti ha trovato al Nazareno le macerie lasciategli dalla parabola di Renzi. E gruppi parlamentari fedeli in gran parte al segretario fiorentino. Il Pd ottiene il 18,7% alla Camera e il 19,1% al Senato, staccatissimo dal Movimento 5 Stelle e tallonato dalla Lega. Uno dei peggiori risultati della storia non solo per il Pd, ma per la sinistra. Il 26 maggio 2019 si tengono le elezioni europee, banco di prova per il governo gialloverde del Carroccio a 5 Stelle del professor Giuseppe Conte e anche per Zingaretti. Nessun fuoco d’artificio; il partitone ex rosso ed ex bianco aggiunge al simbolo la scritta “Siamo Europei” sulla bandiera del Vecchio Continente. Dato per morto da molti opinionisti e sondaggisti, il Pd si piazza al secondo posto con un onorevole 22,7% (è il più votato dagli italiani all’estero) dopo la Lega di Salvini che sfonda il muro del 34%. Fingersi morti per attaccare il nemico con un balzo improvviso e inatteso: la tecnica della mangusta contro il cobra 8nemici esterni e soprattutto interni) pare funzionare. In quell’agosto 2019, dopo un comizio a Pescara Salvini chiede i pieni poteri previa consultazione elettorale, rompe l’alleanza con i 5 Stelle e il Pd si trova al governo del Paese: l’esecutivo Conte 2 il 10 settembre ottiene la fiducia del Parlamento. Il 2019 si chiude così con un inaspettato ritorno a Palazzo Chigi con cui Zingaretti può compensare le cinque Regioni perse dal Pd a beneficio del centrodestra: Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Piemonte e Umbria. E lenire la scissione interna con cui Renzi ha fatto nascere Italia Viva, portando con sé 25 deputati e 13 senatori. Il 2020 è l’anno della pandemia da coronavirus che si abbatte sul mondo e particolarmente sull’Italia. Inizialmente, con il Covid scoppiato principalmente nella metropoli cinese di Wuhan, la sinistra è tutta impegnata a tenere alto l’allarme razzismo in Italia.
Foto di abbracci con persone di nazionalità cinese, foto nei ristoranti cinesi, ottimismo e solidarietà profusi a volontà a beneficio di social e telecamere. La sera del 27 febbraio lo stesso Zingaretti si presenta in un locale dei Navigli a Milano per un aperitivo anti-panico con alcuni giovani militanti del Pd; il successivo 7 marzo il segretario annuncia di essere positivo al coronavirus, per sua fortuna in forma asintomatica. Ma dove la mangusta dà il suo meglio è nelle elezioni regionali; in Emilia-Romagna trionfa il Pd Bonaccini (ringraziamenti sperticati alle Sardine di Santori & C., poi inabissatesi e scomparse in mari profondi), in Campania De Luca, altro dirigente formatosi nell’apparato comunista, in Puglia viene riconfermato Emiliano mentre in Toscana Giani supera in scioltezza la leghista Ceccardi. Altro che morto, il Pd è vivo e respinge la Lega laddove Salvini aveva fissato le tappe del suo assalto decisivo, cioè le fortezze rosse dell’Appennino tosco-emiliano. Dopo l’estate Renzi preme sull’acceleratore dello scontro con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. All’origine della lunga crisi della maggioranza argomentazioni politiche come la stesura del Recovery Plan per spendere i 209 miliardi promessi dall’Unione Europea, l’attivazione del MES (meccanismo europeo di stabilità), la collegialità nella gestione della doppia emergenza sanitaria ed economica con lo stop alle task force tanto care al presidente Conte, la riforma della prescrizione. I tempi sono quelli renziani, cioè un mix di fughe in avanti, precipitose marce indietro, smentite, ramoscelli d’ulivo, minacce e accomodamenti. Un gorgo cui gli italiani assistono attoniti senza capirci nulla o quasi. I 5 Stelle si arroccano in difesa del loro presidente del Consiglio, ultima zattera di salvezza per un partito alla deriva. E il Pd? Nulla o quasi, giusto qualche tiepida dichiarazione pro Conte e stop.
Ma allora perché tra Zingaretti e la De Gregorio ha ragione il primo? Cioè perché il Pd, in fondo, non ha motivo per sbattersi l’anima come gli altri? In realtà il Pd, erede del partito comunista italiano e di una parte della tradizione democristiana, ha in mano leve del potere che nessun’altra formazione politica può (e chissà se mai potrà) vantare: la sinistra è stata determinante per eleggere il Presidente della Repubblica dal 1999 al 2015 (Ciampi, Napolitano, Mattarella), si pone come detentrice dell’unica idea possibile e democratica di Europa, gode delle simpatie di gran parte degli alti dirigenti della pubblica amministrazione e delle più alte magistrature della Repubblica, esprime intellettuali e giornalisti del mainstream della comunicazione politica, fa la parte del leone nella dinamica delle correnti della magistratura (notato il silenzio assordante che avvolge lo sconvolgente libro-intervista "Il Sistema" dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara con il direttore Alessandro Sallusti?), tiene vivo un certo immaginario trasversale al settore televisivo pubblico e privato, intrattiene rapporti più che cordiali con la grande imprenditoria, è il riferimento di buona parte dei sindacati, è attivamente presente nella scuola e nelle università, governa da decenni alcune metropoli italiane come Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Bari, nonché regioni importanti come l’Emilia Romagna e la Toscana. Questa presenza così penetrante del Pd è grazia ricevuta o frutto del caso? Assolutamente no. È un cammino iniziato con le profonde, complesse e straordinarie intuizioni di uno dei più importanti pensatori italiani del Novecento: Antonio Gramsci (1891-1937), che nei Quaderni del carcere (composti tra il 1929 e il 1935, in parte durante la prigionia fascista) enucleò la strategia della cosiddetta conquista delle casematte della società civile. Si legge nel Quaderno numero 7: “Lo Stato (in Occidente, ndr) era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte… questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale”. Cioè per l’intellettuale sardo l’egemonia del proletariato in un Paese come l’Italia avrebbe dovuto realizzarsi non con una conquista violenta e rivoluzionaria del potere come in Russia nell’ottobre del 1917, ma tramite una conquista culturale del potere anche prima del consenso delle masse (“guerra di posizione” nel lessico gramsciano). Organi di stampa, case editrici, magistratura, organizzazioni sindacali, enti culturali, associazioni: le casematte, per l’appunto. Aggiungiamo pure poli assicurativi e bancari e le filiere cinematografiche e il quadro è aggiornato. Questo patrimonio culturale fu parte della costruzione del “partito nuovo” di Palmiro Togliatti (1893-1964), segretario comunista dal 1926 al 1934 e poi dal 1938 al 1964: inserire stabilmente cioè il Pci in una vicenda nazionale, italiana, dall’appoggio al governo Badoglio nell’aprile 1944 ai governi con De Gasperi tra il 1946 e il 1947, ad esempio. Tutto ciò con una macchina organizzativa capillare e imponente, senza paragoni nel mondo occidentale.
Il “Paese nel Paese” pulito e morale, come lo descrisse Pier Paolo Pasolini nel 1975. Un patrimonio difeso con la linea della fermezza durante il sequestro di Aldo Moro nel 1978 e anche durante il ciclone di Tangentopoli che tra il 1992 e il 1993 spazzò via la Democrazia cristiana, il Partito socialista e i partiti laici. In Italia si può governare avendo come estranei se non proprio come avversari questi mondi, queste casematte? È praticamente impossibile. Tanto che, potremmo dire con un paradosso che il Pd per entrare a palazzo Chigi non avrebbe nemmeno bisogno di vincere le elezioni politiche. Paradosso relativo poi, perché il Pd perde nel 2008 e va al governo nel 2011 con Monti, perde nel 2013 e va al governo con Letta, perde nel 2018 e va al governo nel 2019 con Conte. Ecco perché Zingaretti, che proviene dalla tradizione comunista, è sempre tranquillo e sorridente. Perché in fondo consapevole del patrimonio di una storia imponente.
Con le casematte conquistate da tempo e saldamente nelle mani della sinistra. Ecco perché nella querelle tra la giornalista Concita De Gregorio e il segretario, è molto probabile che abbia ragione quest’ultimo. Altro che ologramma!- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.